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La dottrina della creazione

Indice articoli

 

C) La concezione della creazione secondo la Genesi

Per i credenti, che sono consacrati a Cristo che è la Verità, alla Scrittura che è «perfetta e veridica, che rende savio il semplice» (Sl 19:7), per essi che vogliono con la luce del Signore vedere la luce (Sl 36:9), la prova primaria per la buona interpretazione della creazione è la Bibbia stessa, specialmente gli undici primi capitoli della Genesi e il prologo del Vangelo di Giovanni. La prima questione che si pone è allora: di quale genere di scritti si tratta in questi undici primi capitoli del più antico libro della Bibbia? La domanda è rivolta particolarmente ai commentatori evangelici della Bibbia conseguentemente allo sviluppo, nella cultura occidentale, delle teorie sui grandi periodi dell’universo e sull’evoluzione. Molti hanno cercato di aggirare l’evidente contrasto fra la lettura diretta del testo e le teorie naturaliste sulle origini del mondo. L’hanno fatto enunciando l’ipotesi che gli undici capitoli, particolarmente i primi tre, siano scritti poetici e non eventi di storia cronologica.

Lascio ad un eminente specialista di ebraico e delle lingue semitiche l’incarico di rispondere, con tutto il peso della sua erudizione, alle tesi evangeliche del carattere poetico del capitoli 1-3 della Genesi. Edward J. Young, professore nel Seminario di Westminster, a Filadelfia, attualmente defunto, ha espresso il proprio parere sulla questione in un articolo intitolato «La Genesi, poema o mito?», pubblicato sul Westminster Théological Journal, in questi termini:

Allo scopo di sfuggire al carattere pienamente reale del racconto della Genesi, certi evangelici provano a dire che i primi capitoli della Genesi fanno parte dell’ambito della poesia o del mito. Essi in tal modo vogliono dire che non bisogna prendere questi testi nel senso letterale di un esatto racconto, e che, ammettendo questo, ogni difficoltà è risolta... Adottare questo punto di vista, essi dicono, fa scomparire ogni conflitto con la scienza moderna...

E Young aggiunge:

Ci sono racconti poetici della creazione nella Bibbia: il Salmo 104 e alcuni passi in Giobbe. Ma essi sono di uno stile completamente differente dal primo capitolo della Genesi. La poesia ebraica ha caratteristiche ben definite: esse però non si riscontrano in questo primo capitolo. Così non è una buona soluzione pretendere che questo primo capitolo sia solamente poetico. Colui che dicesse: «Io credo che il libro della Genesi vuole essere un racconto storico, ma io non ci credo a quanto esso racconta» interpreta molto meglio la Bibbia di colui che dice: «Io credo che ciò che dice la Genesi è vero, ma non è che poesia».

Una conferma supplementare del carattere non poetico ma storico del racconto della creazione nella Genesi si ritrova nella maniera con cui il Nuovo Testamento usa questi primi capitoli. Si potrebbe fare e rifare l’esegesi di ciascuno dei libri del Nuovo Testamento ma non si troverebbe la minima traccia di una lettura poetica degli undici primi capitoli della Genesi. Si può non essere d’accordo con la lettura letterale storica di questi capitoli nel Nuovo Testamento, ma non si può onestamente trovare, nelle sue pagine, se non una lettura diretta di questi undici capitoli, presi come eventi letteralmente incontestabili.

Walter T. Brown è un vecchio istruttore dell’Aeronautica americana in pensione. Attualmente è a capo di un centro di studi creazionisti nell’Arizona. Ebbene egli ha fatto l’elenco di 71 referenze ai primi capitoli della Genesi nel Nuovo Testamento, tirandone le seguenti conclusioni:

a) tutti i redattori del Nuovo Testamento fanno riferimento agli undici primi capitoli della Genesi;

b) Gesù si è riferito a ciascuno dei primi sette capitoli della Genesi;

c) tutti i libri del Nuovo Testamento fanno riferimento a questi undici capitoli, eccettuate le Epistole ai Galati, ai Filippesi, ai Tessalonicesi (le due lettere), la seconda lettera a Timoteo, Tito e la II e la III Epistola di Giovanni;

d) ciascuno degli undici primi capitoli è oggetto di un commento nell’uno o nell’altro dei libri del Nuovo Testamento, fatta eccezione per il capitolo 8;

e) tutti i redattori del Nuovo Testamento prendono questi primi capitoli della Genesi come racconti veramente storici.

Se si fa l’analisi grammaticale della Genesi, si constata che la grammatica è quella di un racconto pienamente storico, non quella della poesia. Così, questi primi capitoli della Genesi fanno uso di una forma particolare dell’ebraico chiamata il waw consecutivo (reso in italiano con la ripetizione della congiunzione “e”: ed (waw) egli disse; ed (waw) egli fece, ecc.). Ora gli Ebrei usano normalmente il waw consecutivo per dare un senso di sequenza nella storia. Ognuno può anche constatare, inoltre, che non c’è strofa poetica in tutti questi capitoli: grammaticalmente si tratta di un racconto semplice, un racconto diretto di avvenimenti che si sono realmente prodotti in un ordine ben definito.

Non è certamente nelle mie intenzioni studiare in dettaglio ciò che bisogna ritenere del racconto dei capitoli 1-3 riguardo all’opera compiuta dal Signore nei primi sei giorni della creazione. Tuttavia vorrei fare alcune osservazioni generali su alcuni aspetti importanti dell’insegnamento della Genesi sulla creazione nei primi sei capitoli.

Prima di tutto un breve riassunto del libro della Genesi: può dividersi in due grandi parti. La prima è la creazione; essa copre il primo capitolo e i tre primi versetti del secondo capitolo. La seconda parte va dal capitolo 2, versetto 4, al capitolo 50, versetto 26. Un’analisi più attenta della prima parte ci dà al versetto 1 un sommario della creazione nella sua totalità; poi, dal versetto 2 al v.30, un resoconto dettagliato dei sei giorni della creazione. Abbiamo dunque, innanzitutto, al v.1, la presentazione generale dell’opera della creazione durante i sei giorni presi nel loro insieme e, dopo, dal v.2 al v.30, il racconto dettagliato di quanto Dio ha fatto durante ciascuno dei sei giorni. Poi, dal capitolo 1 v.31, al capitolo 2 v.3, il riassunto: ci dice che «Dio vide tutto ciò che aveva fatto, ed ecco era molto buono» (Ge 1:31).

Da questo punto, procedendo nel resto del libro della Genesi, tutto si svolge come se il progettista si spostasse dall’immenso universo per focalizzarsi su una piccola testa di spillo che si chiama uomo. È la base delle nostre risposte a domande quali: perché siamo qui? perché siamo come siamo oggi? cosa è successo? Ebbene, il secondo capitolo della Genesi volge l’attenzione verso l’umanità, e sarà così per tutto il resto dei libri della Bibbia, fino a che essa termina sulla rivelazione del libro dell’Apocalisse! Così la struttura del libro della Genesi è fatta in modo che essa parte dalla realtà del generale per arrivare alla specificità del dettaglio. Poi essa riassume il significato di questi dettagli e concentra, in seguito l’attenzione su un aspetto molto specifico della realtà: la storia dell’umanità che ci introduce nel patto di grazia e nella buona notizia dell’Evangelo.

In parte, dal momento che non voleva comprendere questa struttura di base della Genesi e la maniera con cui il pensiero ebraico registra i racconti contrastanti della creazione, l’alta critica del XIX secolo ha inventato la finzione di due o tre racconti contraddittori della creazione, fondandosi su una «teoria degli strati» nella composizione del Pentateuco, che sarebbe l’addizione, postulata da Graf e Wellhausen, di strati (J,E,D e P) nella sua composizione.

Umberto Cassuto, il grande docente ebreo dell’Università di Gerusalemme, ha risposto, negli anni ‘50, a questa forma erronea della critica superiore. Nel suo Commentario del libro della Genesi, egli mostra come il v. 4 del cap. 2 della Genesi non sia un riassunto del racconto della creazione del capitolo precedente, ma piuttosto un indicatore di una sezione a logica differente del libro della Genesi (riferendosi alla sua seconda parte). Genesi 2:4 dà, secondo la sua spiegazione, un abbozzo generale, breve: esso dà conto della formazione di una delle creature del mondo materiale, mentre il libro, nella sua seconda parte, si dedica e si allarga molto in dettaglio sulla storia dell’essere che è al centro del mondo morale. Questa ripetizione era coerente col principio stilistico di presentare, agli inizi, l’insieme per poi passare in rassegna il dettaglio, un sistema che era comunemente seguito non solo per la Bibbia ma anche per i monumenti letterari degli altri paesi dell’antico Oriente. Il lettore può pensare che si tratti di un altro racconto, ed è proprio questo che la critica superiore tedesca del XIX secolo ha preso come ipotesi, cosicché, secondo essa, il secondo capitolo della Genesi (Ge 2) non sarebbe altro che un secondo racconto della creazione, in contraddizione col primo (Ge 1), mentre esso è solo una ripresa in dettaglio del primo capitolo.

Oltre alla comprensione dello schema di base del libro della Genesi, bisogna anche considerare il significato della parola ebraica usata da Mosè e che noi traduciamo con creare nel primo capitolo della Genesi. Si tratta del verbo barah nel tempo presente attivo Qal. Il professor E.J. Young ha fatto notare che «usato al tempo Qal, il verbo barah designa unicamente l’attività divina: il soggetto del verbo è sempre Dio, mai l’uomo». Questo verbo vuol dire che Dio ha creato tutte le cose a partire dal nulla (creatio ex nihilo), vale a dire senza l’utilizzazione della materia preesistente. È ciò che si chiama la «creazione assoluta», per opposizione alla «creazione relativa», che utilizza un materiale preesistente. Non c’era che Dio solo a poter realizzare questo miracolo!

Infine, il concetto di creazione assoluta riposa sulla realtà del Dio della Scrittura, assoluto, infinito e personale. In ultima analisi, dobbiamo supporre o un Dio eterno o una materia eterna: sono le due sole possibilità che si offrono per rendere conto della fonte primaria di ogni realtà. Lasciatemi dire che l’esistenza di una materia eterna non è in alcun senso un fatto scientifico. È piuttosto un articolo di fede o una supposizione di carattere religioso: è necessario che ci ricordiamo del carattere religioso di questa ipotesi quando discutiamo coi partigiani dell’evoluzione.

Si può aggiungere una terza osservazione a quelle precedenti sulla struttura del libro della Genesi e sul concetto di «creazione assoluta». Nel primo capitolo ci è data un’indicazione importante con l’introduzione e la continuità della vita vegetale nel terzo giorno della creazione (Ge 1: 9-13). Il testo ci dice che Dio ha messo nel suolo fertile non i semi ma le piante nel pieno della maturità, alberi coi frutti contenenti i loro semi riproduttori. E queste piante create adulte erano nel loro aspetto più vecchie della loro effettiva età. Noi possiamo così pensare che il nostro progenitore Adamo, creato adulto nel sesto giorno, sembrava un diciottenne o un ventenne mentre aveva un solo giorno di vita. Lo stesso si può dire delle piante e degli alberi, che impiegano molti anni per raggiungere la loro maturità, e che ora sembravano più vecchie della loro reale età. Ciò ci fa capire che Dio, nella sua attività creatrice, può creare una pianta, un albero, un essere umano nel loro stato adulto in una frazione di secondo. Non dobbiamo allora cercare di misurare l’età della realtà fisica solamente sulla base del tempo necessario agli strumenti di oggi per funzionare. Si tratta di un problema importante per i sostenitori della «tesi dell’uniformizzazione», i quali credono che «il presente è la chiave del passato», dal momento che rifiutano di tener conto di ciò che può fare l’attività creatrice di Dio. In tal modo essi forniscono un calcolo esagerato dell’età dell’universo.

Il testo della Genesi ci insegna che Dio ha dato alla vita vegetale i mezzi per trasmettere il proprio codice genetico di generazione in generazione attraverso i semi che essa contiene. Il v.11 del capitolo 1 della Genesi lo dice chiaramente:

Faccia la terra germogliare la verdura, le erbe che facciano seme e gli alberi da frutto che portino sulla terra un frutto contenente il proprio seme, ciascuno secondo la propria specie.

C’era dunque, impiantato in ogni organismo creato da Dio, un seme, programmato per permettere la replica continua di questo tipo d’organismo (è detto: la sua specie). Oggi si direbbe che il seme è la molecola DNA, questo viticcio contenente il codice genetico che specifica le caratteristiche di riproduzione della medesima specie. Ciò che la Genesi ci dice, la scienza moderna lo conferma rafforzando con le sue scoperte la nozione di stabilità delle specie. Si è dunque molto lontani dalla teoria dell’evoluzione di una specie evolventesi verso un’altra specie. In altri termini, «una specie riproduce se stessa», le cose si riproducono secondo la loro specie. Certo, c’è molto potenziale di variazione in ciascuna specie di base - così ci sono molte razze di cani, per esempio - ma non c’è alcuna prova d’un cambiamento di una specie in un’altra (per esempio, di un cambiamento di un cane in un gatto, o di un pesce in un uccello).

Notiamo qui che la teoria dell’evoluzione si trova in una grande crisi, per il fatto che il meccanismo centrale da essa ostentato per spiegare lo sviluppo delle specie inferiori in specie superiori cozza col principio di stabilità delle basi delle specie, quello descritto nel primo capitolo della Genesi, principio la cui credibilità è rinsaldata dalle ricerche attuali della genetica (in effetti, esse rimontano agli esperimenti effettuati da Mendel sui piselli nella metà del XIX secolo). D’altronde, dal tempo di Mendel e fino ad oggi, la ricerca genetica non è stata capace di dimostrare la veracità della tesi dell’evoluzione di una specie in un’altra. Ed è per questo che le teorie dell’evoluzione si trovano in cattive acque.

Vorrei citare a questo punto un nuovo supplemento ai manuali scolari di biologia, attualmente molto diffuso negli Stati Uniti: Dei panda e degli uomini: la questione centrale delle origini biologiche. Questo manuale, redatto da scienziati rispettabili, critica i meccanismi proposti dalle teorie dell’evoluzione fondandosi sulle più recenti ricerche sperimentali. I loro autori assicurano che:

il solo mezzo per introdurre veramente un nuovo materiale genetico nel potenziale genetico si può avere per una mutazione, cioè per un cambiamento della sua struttura DNA. Ora le mutazioni dei geni non si producono se non quando i geni individuali sono stati danneggiati da un’esposizione al calore, agli agenti chimici o a delle radiazioni. Le mutazioni dei cromosomi, da parte loro, non hanno luogo che quando delle sezioni del DNA sono duplicate, invertite, perdute o spostate altrove nella struttura DNA. In quanto meccanismo centrale dell’evoluzione, le mutazioni sono state oggetto di intense ricerche nel corso dell’ultimo mezzo secolo. Sono stati fatti numerosissimi studi sulla mosca drosofila dei frutti, poiché la sua vita molto breve permette agli scienziati di osservarne parecchie generazioni. Avendo bombardato le mosche con radiazioni per accrescerne il tasso di mutazione, ci si è accorti che le mutazioni non creano nuove strutture. Esse non fanno che modificare le strutture esistenti, ma non hanno trasformato la drosofila in una specie di nuovo insetto. Gli esperimenti non hanno fatto altro che produrre varianti della specie della mosca drosofila.

La controprova che le mutazioni non risultano da un’evoluzione è stata fornita in maniera ancora più decisiva dallo zoologo francese Grasse, che ha studiato generazioni di batteri, che si riproducono molto più rapidamente della mosca drosofila: una generazione dura all’incirca mezz’ora, dunque i batteri si riproducono 400.000 volte più rapidamente che le nostre generazioni umane. I ricercatori possono così seguire le modificazioni che le mutazioni producono in uno spazio di tempo relativamente brevissimo, ma che equivale a tre milioni e mezzo (3.500.000) di anni per la nostra razza umana. Ma Grasse ha trovato che i suoi batteri non sono affatto cambiati attraverso queste generazioni.[4] Davanti a tali risultati sperimentali, si può ragionevolmente sostenere che né le piante né l’umanità sono evolute durante il periodo equivalente a quello nel corso del quale i batteri hanno rivelato una discendenza stabile.

Qualcuno potrebbe arguire che, pur non essendoci una prova convincente dell’evoluzione in materia di mutazione da una specie ad un’altra, la sola esistenza di tanti fossili dimostra da sé che c’è stata in passato un’evoluzione (o cambio graduale di specie). Peccato...! Le ricerche attuali hanno mostrato come i fossili siano una delle prove più forti contro l’evoluzione e a favore di una certa forma di creazione secondo un «piano intelligente». Lo specialista dei fossili Stephen J. Gould, in un articolo intitolato «Il cammino erroneo dell’evoluzione» pubblicato nel numero di maggio 1977 della rivista Natural History, ha constatato che «l’estrema rarità di forme di transizione nelle sequenze fossili resta un mistero nella paleontologia». E aggiunge: «Nuove specie sono apparse quasi sempre in queste sequenze, ma senza alcun legame cogli antenati trovati nelle rocce più antiche della stessa regione».

Ciò significa che manca sempre «l’anello mancante», mentre si trovano sempre più fossili, e che i salti tra le specie o famiglie sono sempre molto ampi. Commento di David B. Kitts, professore alla facoltà di geologia e geofisica dell’Università dell’Oklahoma:

A dispetto delle belle promesse secondo le quali la paleontologia avrebbe fornito un mezzo per vedere l’evoluzione, essa non ha potuto produrre che brutte difficoltà ai partigiani dell’evoluzione, la più nota delle quali è la presenza di buchi nella sequenza fossile. La teoria dell’evoluzione vorrebbe degli intermediari fra le specie e la paleontologia non gliene fornisce.[5]

Sotto questo angolo, la paleontologia testimonia fortemente a favore della tesi della Genesi sulla stabilità delle specie.

Giunto alla conclusione di questa prima parte, vorrei dire che per noi cristiani non è affatto il momento di vergognarci della dottrina fondamentale insegnata dal libro della Genesi. Al contrario, è tempo di considerare più attentamente il testo sacro, ponendo le questioni essenziali di fronte alle pretese delle teorie dell’evoluzione, ancora popolari nella nostra società. Più faremo questo e più facilmente potremo elevare la nostra voce insieme con quelle degli angeli, per lodare il Signore che è nello stesso tempo il nostro Creatore e il nostro Redentore.

Vi invito a farlo col salmista col canto del Salmo 148, nella parafrasi di Teodoro di Beza contenuto nel Salterio di Ginevra:

 

Voi, distese, abissi,

Lodate la mano del Creatore.

Egli parla e tutto gli obbedisce,

Ognuno si piega ai suoi decreti.

Mostri marini negli abissi,

Tempeste infurianti sulle cime

Siete tutti, nevi e venti,

Sottomessi alle leggi di Dio potente.

 

Voi, tutti i cedri delle alture,

Voi, frutteti e foreste,

Voi tutti, monti e colline

E voi, fiumi e ruscelli,

Voi, greggi al pascolo

E tutti gli animali selvatici,

Sulla terra, in cielo e nelle acque,

Lodate il nome dell’Altissimo.

 

Lui solo è grande, lui solo è Dio,

La sua gloria è oltre i cieli:

Nel suo amore si è legato

Al popolo che ha rialzato.

Per lodarlo, o voi suoi fedeli,

Il vostro ardore si rinnovelli.

Accostatevi al vostro Re,

Andate a lui. Alleluia!

Teodoro di Beza