Questo articolo riporta le tre conferenze tenute dal D. Kelly, professore di teologia sistematica nel Reformed Theological Seminary di Dillon (Carolina del Nord - U.S.A.) alla Pastorale di Dijon nell’aprile 2000. [1]
Non riconoscere il carattere centrale di figura profetica nel primo Adamo non fa che svuotare l’ultimo Adamo della sua realtà. Se il primo rappresentante dell’Alleanza non avesse recato, con la sua disubbidienza, la condanna e la morte al mondo fisico reale, è improbabile che l’ultimo Adamo, con la sua obbedienza, potesse recare perdono, vita e guarigione allo stesso mondo fisico reale.
I. La dottrina della creazione e la gloria di Cristo
L’ultimo libro della Bibbia solleva la leggera cortina che separa il tempo dall’eternità per farci vedere e udire tutte le beltà del cielo. L’Apocalisse ci rivela che nel cielo non ci sarà soltanto da vedere ma anche da udire. L’eco delle arpe d’oro e delle trombe d’argento della redenzione risuona al di sopra di un mare di cristallo e si fonde con gl’inni degli angeli e dei redenti. Le loro voci cantano con una tale bellezza che il più sublime dei nostri canti gregoriani, la più maestosa delle fughe di Bach, la più commovente delle sonate di Mozart, il più grandioso degli oratori di Händel non sono che pallidi riflessi dell’acuta dolcezza e dell’estatica purezza di una sola riga, di una sola battuta o addirittura di una sola nota di questo imponente coro celeste.
Uno degli inni intonati da questa immensa assemblea, nei luoghi altissimi, magnifica la gloria di Cristo attraverso l’universo che egli ha creato. Eccone il testo (ne ascolteremo la musica più tardi, quando saremo stati elevati lassù!):
Degno sei, o Signore, di ricevere la gloria, l’onore e la potenza, perché tu hai creato tutte le cose, e per tua volontà esistono e sono state create (Ap 4:11).[2]
Immediatamente dopo, il capitolo 5 dell’Apocalisse descrive la redenzione del nostro mondo ad opera di colui stesso che l’ha creato. Al versetto 9, il maestoso coro celeste si fa di nuovo udire in tutta la sua bellezza, ed è veramente prodigioso come esso esalta, nella Persona divina, colui che ha creato tutte le cose per la sua propria gioia. Ma questa volta c’è un altro motivo di lode: miriadi di miriadi di angeli, i quattro esseri viventi e i ventiquattro anziani glorificano Dio perché ha salvato ciò che ha creato. Ascoltiamoli:
E cantavano un nuovo cantico dicendo: Tu sei degno di prendere il libro e di aprirne i sigilli, perché sei stato ucciso, e col tuo sangue ci hai comprati a Dio da ogni tribù, lingua, popolo e nazione...
D’altronde, voi ben lo sapete, non è solamente l’Apocalisse, è tutta la Bibbia che unisce - e molto saldamente - la creazione per mezzo di Cristo e la redenzione per mezzo di Cristo. L’associazione della creazione e della redenzione si ritrova costantemente nella Legge, nei Salmi e nei Profeti, così come nel Nuovo Testamento. Il prologo del Vangelo di Giovanni - Nel principio era la Parola, e la Parola era con Dio, e la Parola era Dio (1:1) - ci fa scoprire poco dopo chi si trova dietro questa parola della creazione del mondo: «Egli (la Parola) è venuto in casa sua, e i suoi non lo hanno ricevuto» (Gv 1:11). Per l’espressione resa in italiano «i suoi», l’autore del Vangelo usa in greco un termine che significa «le proprie cose» o «la propria gente» o forse anche «la propria casa» (in inglese direi his very own home).
Non è un punto di minore importanza, poiché in effetti queste due paroline, «i suoi», sono caricate del pathos più commovente. Infatti l’incarnazione del Redentore non è consistita nell’atterraggio di un extraterrestre davanti a un gruppo di uomini e di donne atterriti. No, egli è venuto come sangue del nostro sangue, come carne della nostra carne; qui, la nostra terra è la sua terra, la sua casa, la sua razza, la sua umanità, la sua creazione. Il tragico orrore del peccato è proprio tutto qui: messi alla presenza dell’infinito della sua purezza e del suo amore, manifestati in una carne simile alla loro, i suoi hanno respinto ed infine assassinato colui che era l’immagine stessa di questa carne nella quale sono stati creati.
Quale benedizione il Vangelo di Giovanni ci presenta più avanti: «Gesù, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine» (Gv 13:1). Si potrebbe anche tradurre: li amò fino all’estremo. Per questo bisognerà che a conclusione di questa conferenza ascoltiamo i santi e il coro degli angeli ricordarci fino a quale estremo è andato per colmare il suo amore. Ma, prima di questo, dobbiamo contemplare un istante la gloria che gli rendono per aver creato tutte le cose sulla terra e nei cieli. È questo soggetto, la gloria di Cristo nella creazione, il nostro tema centrale, più dell’altro tema che ne è la naturale conseguenza, quello della potenza della salvezza e della preziosa redenzione di questo mondo perduto.
Lasciatemi esprimere il mio stupore per il fatto che, nei culti delle nostre chiese evangeliche, mentre le lodi celesti sono intensamente rivolte verso il Cristo creatore di tutte le cose, i nostri canti e la nostra predicazione paiono talmente vuoti di riferimenti alla sua divina creazione, privi di ammirazione e di contemplazione del creato, di appassionata allegrezza nel canto di lode. Se i luoghi altissimi glorificano Cristo per le meraviglie della sua creazione, perché le nostre chiese moderne trascurano tanto di farlo?
Spero di non andare troppo lontano se dico che molti di noi ci sentiamo imbarazzati quando trattiamo il problema delle origini e, anziché di insegnare la creazione come facente parte della gloria di Cristo, cerchiamo piuttosto di evitare questo soggetto. In uno straordinario libretto, Nigel Cameron, attualmente professore alla Trinity Evangelical Divinity School (nei pressi di Chicago), faceva ben notare, più di una dozzina di anni fa, una strana anomalia tra credenti, che poi sono molto fondamentalisti per tutte le altre dottrine:
In tutti gli altri soggetti, i credenti evangelici hanno affermato le loro posizioni sull’insegnamento della Bibbia e hanno rifiutato di lasciarsi dettare le loro opinioni dal consenso del mondo cristiano liberale e umanista. Ma lì (nel dibattito tra creazionisti e evoluzionisti), c’è stato in essi, nonostante gli insegnamenti della Scrittura, una disposizione a rientrare nei ranghi che bisogna far ben risaltare.
Ci deve essere una ragione perché una tale corruzione, intellettuale e spirituale, si sia introdotta nel campo della dottrina della creazione. Non ci sarebbe forse una relazione tra il primato della creazione, quale dottrina fondamentale della Scrittura, e il suo primato intellettuale quale pietra angolare di tutta l’educazione? Ci sorprendiamo se questa dottrina di primaria importanza, questa occasione di rendere gloria a Gesù Cristo, questa base solida per la concezione della Chiesa riguardo al mondo e alla vita, sia così violentemente contestata da tutta l’opposizione della cultura umanista?
Si comprende bene il rifiuto degli umanisti a unire le loro voci a quelle del coro dei santi e degli angeli nel rendere gloria a colui del quale inevitabilmente dovrebbero riconoscere l’onnipotenza manifestata nell’ordine della creazione: poiché, una volta riconosciuto che esiste un Creatore, dovrebbero piegare le loro ginocchia, consegnare il loro cuore, il loro spirito e la loro volontà a lui.
Ma ciò che non è comprensibile, è questo rifiutarsi dei santi sulla terra di riconoscere tutto quanto è chiaramente coinvolto nella creazione e di rendere grazie a Gesù a questo titolo. E pertanto è questa la realtà intorno a noi! È per questo che vorrei cogliere l’occasione - per essere positivo - per rivolgere un appello, a voi e a queste migliaia di altri nella Chiesa di Cristo che milita quaggiù; sì, vi chiamo a unire le vostre voci a quelle della Chiesa trionfante di lassù in un grande canto di lode a colui che ha creato tutte le cose per la sua volontà (Ap 4:11) e che le ha poi lavate dal peccato per mezzo del suo sangue prezioso, del suo proprio sangue. Non è questo, nella nostra civiltà in così rapido declino, un richiamo di una particolare urgenza per tutti i fedeli della Chiesa?
* * *
Ecco trascorso il XX secolo: ai suoi inizi, esso ha visto la comparsa di libri di grande successo, quali Il declino dell’Occidente (The Decline of the West). Più tardi, vennero Il declino del pensiero occidentale (The Decline of Western Thought) e La venuta delle età nere (The Coming Dark Ages). Mentre qualche opinionista liberale dava a questo inizio di XX secolo il nome di « secolo del cristianesimo » (The Christian Century), un nome che era stato ripreso da un noto periodico liberale, dei pensatori più perspicaci (sia umanisti che credenti) hanno previsto l’avvicinarsi di tempi brutti. E il secolo si è concluso con una secolarizzazione massiccia dell’Occidente già cristiano: ecco l’irrompere della criminalità, la facilità del divorzio, la legalizzazione dell’aborto e l’AIDS, e solitudine, depressioni, vite vuote e prive di senso... ferite in alcun modo compensate dai progressi stupefacenti della tecnologia, della medicina e delle condizioni di vita.
Che cosa è dunque successo? La Scrittura ci insegna che « è giunto il tempo che il giudizio cominci dalla casa di Dio » (1P 4:17). Un principio ha funzionato dal tempo della Scrittura e in seguito attraverso tutto la storia, e cioè che lo stato nel quale si trova la Chiesa determina la presa di direzione della società attorno ad essa. Generalmente, questa determinante influenza è indiretta e nascosta, come lo è il lievito nella pasta, ma è in fin dei conti la vivacità della fede del popolo di Dio che rivitalizza la cultura o la trascina verso la decadenza.
Un esempio: la Chiesa della fine del Medio Evo, compromessa in parte dalle eresie, in parte dall’immoralità dovuta alla sua corruzione, ha avuto la sua parte d’influenza sull’avvento, nel Rinascimento, dell’umanesimo anticristiano. Questo umanesimo del Rinascimento, dopo essere stato tenuto a bada dal Protestantesimo del XVI secolo, è riapparso sotto spoglie diverse alla fine del XVII secolo e, dopo, durante tutto il periodo dell’Illuminismo del XVIII secolo, il quale ha approfittato dell’anemia spirituale conseguente al declino del Puritanesimo britannico. Agli inizi, i contemporanei del secolo dei Lumi si son visti proporre un cristianesimo senza misteri, deista, razionalista e, finalmente, accettabile; ma, a metà del XIX secolo, i razionalisti si son sentiti politicamente abbastanza sicuri da fare completamente a meno di Dio a vantaggio del culto dell’uomo e dell’attesa messianica di uno Stato centralizzato che avrebbe rimpiazzato il Regno di Dio.
Era di primaria importanza, per passare così dal trascendente al razionalismo, che gli umanisti disponessero di un’altra teoria della creazione per spiegare l’origine del mondo. Non c’è bisogno di ritornare sulla storia di questa metamorfosi, salvo che per sottolineare l’importanza ormai determinante dell’evoluzionismo come base di tutta la concezione umanista del mondo, la quale ha dominato tutta la scena intellettuale per più di un secolo.
In una pesante critica dell’evoluzione procedente da basi scientifiche sperimentali, Michael Denton, che non è tuttavia un cristiano praticante, mette in evidenza il principio di quest’altra teoria della creazione predicata dai razionalisti:
Tutta la filosofia, tutta l’etica scientifica dell’uomo moderno è fondata, in larga misura, sull’ipotesi centrale della teoria di Darwin, che l’uomo non è nato dalla volontà creatrice di una divinità, ma da una selezione proveniente da prove ed errori, priva di pensiero, applicata a caso su degli agglomerati molecolari. Così l’importanza culturale della teoria dell’evoluzione è incommensurabile, giacché essa forma l’elemento centrale, il coronamento della concezione naturalista del mondo, il trionfo finale delle tesi umaniste che, dalla fine del Medio Evo, hanno scacciato dal pensiero occidentale l’ingenua concezione del mondo della Genesi.
La potenza politica ed economica che gli evoluzionisti impiegano per conservare il loro dominio su tutte le istituzioni intellettuali della società occidentale - scuole pubbliche, università, case editrici, amministrazioni, media - è stupefacente! È, in ogni caso, un’eloquente testimonianza della loro convinzione che la loro dottrina delle origini è di primaria importanza per la solidità d’insieme della loro concezione del mondo.
L’assurdo in questa vicenda è che molti corifei del movimento intellettuale evangelico sembrano non rendersi conto dell’importanza fondamentale di conservare ed estendere l’insegnamento biblico della creazione ai fini della ricristianizzazione del pensiero, dell’azione, e poi della stessa società. Dal punto di vista storico, l’inefficienza degli intellettuali evangelici su questa fondamentale materia è servita a dare un enorme vantaggio agli umanisti più sensati al fine di guadagnare la cultura occidentale alla loro filosofia (e ciò nonostante che gli umanisti stiano per perdere rapidamente il loro vantaggio intellettuale poiché la scienza ha dimostrato in pratica il fallimento dell’evoluzionismo).
I cristiani non potranno mai riguadagnare la società finché non avranno veramente compreso, di nuovo, l’importanza della creazione.
A) L’importanza della creazione
Ero a “L’Abri”[3] nel mese di dicembre del 1968, e là sentii dire da Francis Schaeffer che se egli avesse dovuto trascorrere un’ora in un aereo con qualcuno che non conosce Dio, avrebbe impiegato cinquantacinque minuti per parlargli della creazione ad immagine di Dio e dell’origine dell’uomo, prima di trascorrere gli ultimi cinque minuti per annunciargli l’evangelo della salvezza. Schaeffer riteneva che è un madornale errore l’evitare il soggetto primario, che è quello di comprendere come ci troviamo qui, perché siamo ciò che siamo, chi ci dirige, secondo quali regole ci dobbiamo comportare e quali sono i criteri in base ai quali saremo giudicati. Egli aveva capito che se non si risponde a queste domande fondamentali, che sono nel cuore di ciascuno, per passare direttamente all’evangelo della salvezza, si priva chi cerca la verità dell’effetto maggiore offerto dalla realtà delle cose.
Attenersi pienamente alla dottrina biblica della creazione è importante per un altro motivo: ci aiuta a vedere che la Bibbia è da prendere sul serio quando essa parla del mondo reale. Trascurando di occuparsi di ciò che dice la Scrittura a proposito della creazione del mondo reale, si favorisce la tendenza già presente nella religione a dissociarsi dal mondo, in altre parole, per usare un esempio immaginoso, si spinge ancora di più la Scrittura e il cristianesimo in un armadio, da dove non si può più influenzare lo spazio-tempo.
È proprio ciò che notava, verso la fine dell’800, il teologo scozzese James Denney: «La separazione fra la scienza e la religione si trascinerà dietro la separazione fra la verità e la religione; ciò significa che la religione andrà a scomparire presso gli uomini sinceri». Al contrario, se la Chiesa si preoccupa di parlare della creazione, la gente comprende immediatamente che Dio agisce sul mondo reale in cui si vive, che egli dirige la storia, lo spazio e il tempo. Il risultato sarà che la Bibbia potrà divenire molto importante per la loro vita di ogni giorno e per il loro destino personale. In altri termini, la dottrina della creazione con cui comincia la Parola di Dio dev’essere presentata come il fondamento della Rivelazione, giacché è di là che Dio ha cominciato. Ciò mostrerà che, essendo Dio la fonte di ogni realtà, la sua Parola è veritiera e può quindi essere applicata nella vita di tutti i giorni. Se invece si adotta, riguardo alle origini del mondo, il punto di vista della filosofia incredula, si dà ai primi capitoli della Genesi un significato puramente religioso, e di conseguenza la Bibbia e la religione vengono confinate in un dominio irreale, senza una reale importanza… e le chiese si svuotano di credenti. È quanto è accaduto nella maggior parte dei paesi europei nel XIX secolo e in America negli anni 20 del ‘900, secondo un’analisi di Michael Denton nella sua recente critica dell’evoluzionismo.
Ancora un motivo, fra i molti altri, per attribuire una grande importanza alla dottrina della creazione: senza il fondamento della dottrina di una creazione ad opera di Dio, non è possibile dare al mondo e alla vita il loro vero senso. Uno dei compagni di Calvino a Strasburgo (verso il 1525), Wolfgang Capiton, ha scritto un’opera intitolata Hexameron, Sive Opus Sex Dierum (Il libro dei sei giorni), in cui egli dichiara molto giustamente che aderire alla dottrina della creazione ad opera di Dio è «la base primaria della divina filosofia». Ciò vuol dire che la creazione non è soltanto la prima azione di Dio nella storia, essa è anche la prima azione come base fondamentale assolutamente necessaria alla comprensione di tutto ciò che è venuto dopo, fino alla stessa redenzione. W. Capiton ha avuto ragione nel dire che non si può dare un senso alla propria vita mettendo da parte l’insegnamento della Genesi; tutte le cose sono state create dall’Iddio infinito e personale, per la sua gloria e per la nostra benedizione.
In altre parole, e per dirlo con parole semplici, se la Parola di Dio ha inizio con la dottrina della creazione, ciò significa che questo soggetto dev’essere di un’importanza fondamentale per tutto quanto viene dopo. La creazione ad opera di Dio è la base di tutto il resto nella Scrittura, vale a dire che essa dà il senso nello stesso tempo sia della natura sia dell’uomo e della loro redenzione. Se fondiamo il nostro pensiero su basi false, allora sarà tutto l’edificio, tutta la casa ad essere costruita male, e inevitabilmente essa crollerà.
Ma per comprendere bene la natura della pervicace resistenza degli intellettuali di fronte alla concezione biblica delle origini del mondo, bisogna tener conto dell’importanza della loro teoria delle origini del mondo.
B) La troppo rapida capitolazione degli intellettuali cristiani di fronte alle vedute materialiste sulle origini del mondo
Il professor N. Cameron ha consacrato il capitolo 6 della sua opera L’evoluzione e l’autorità della Bibbia alla triste storia della capitolazione quasi totale degli intellettuali cristiani del XIX secolo di fronte alla teoria dell’evoluzione formulata da Darwin. Egli scrive:
Fin dal momento in cui il nuovo pensiero scientifico ha cominciato a prendere piede nel XIX secolo, prima nel campo della geologia, poi in quello della biologia, i commentatori biblici si sono affrettati ad adattare la loro interpretazione della Scrittura all’ultima ortodossia scientifica.
E dopo aver studiato un gran numero di commentari cristiani del XIX secolo sulla Genesi, egli conclude:
È evidente che ogni commentatore, ad eccezione di (Thomas) Scott, critica l’idea tradizionale del diluvio. Essi credevano che era necessario armonizzare l’interpretazione della Scrittura con ciò che credevano gli uomini dotti…
Philip Johnson, professore alla facoltà di Diritto dell’Università di California, a Berkeley, ha notato il medesimo strano fenomeno nel suo Processo di Darwin:
Il darwinismo concordava talmente con lo spirito della sua epoca che questa teoria ha ricevuto l’adesione di un numero sorprendente di dirigenti religiosi. Molti dei primi partigiani di Darwin erano membri del clero o laici convinti.
La medesima constatazione è fatta da David N. Livingstone (studioso e scrittore britannico) nella sua opera I difensori dimenticati di Darwin: l’incontro della teologia evangelica col pensiero evoluzionista, del 1987, e dal professor Colin Russel in un articolo sul London’s Journal pubblicato nella rivista Scienza e Fede cristiana (Science and Christian Belief), nel 1989.
Ciò non vuol dire che non ci sia stata opposizione intellettuale al darwinismo rimpiazzante la creazione ad opera di Dio. Ma questa opposizione non venne dai membri del clero (a parte alcune onorevoli eccezioni), ma - ed è ciò che mostra bene Ph. Johnson - da esperti in fossili! E l’articolo del professor Colin Russel (che è stato analizzato da Clifford Longley nel London Times del 17 febbraio 1990) nota come Thomas Huxley, il bulldog di Darwin, non sia stato combattuto dal clero (salvo, e in maniera piuttosto inetta, dal buon vescovo Wilberforce) ma da fisici di Cambridge di primo rango, quali lord Kelvin e James Clerk-Maxwell (i quali erano ambedue evangelici presbiteriani scozzesi). Ahimè, i teologi del tempo non seppero fare uso degli argomenti scientifici e dei postulati che questi due eminenti fisici avevano lanciato contro l’evoluzione. Essi hanno preferito accettare senza battere ciglio le nuove tesi che ricostruivano la storia primitiva, geografica e biologica con la teoria dell’evoluzione.
Così, fatta eccezione per alcuni fondamentalisti il cui cuore era ben orientato, ma che spesso erano privi di cultura e d’influenza nel campo culturale, molti intellettuali cristiani hanno accettato senza esitare il surrogato, imposto dai razionalisti, al racconto biblico della creazione. Come fa notare N. Cameron, i liberali e i fondamentalisti hanno armonizzato l’antico racconto della Genesi col darwinismo in due diverse maniere:
... i liberali, rigettando la testimonianza delle Scritture sul diluvio, i fondamentalisti reinterpretando le Scritture in un senso più consensuale.Come apertamente ammette Whitelaw, qui c’era una politica deliberata da parte loro. Giacché, laddove gli autori fondamentalisti, che si trovavano obbligati dalla loro dottrina della Scrittura a preservare la verità, checché essa potesse dire, imponevano una lettura non molto letterale del testo, gli autori liberali, da parte loro, potevano ammettere senza complessi che la Scrittura insegna qualcosa (il diluvio universale) che non è accaduta.
Io non sono sicuro che la situazione sia molto migliorata nella comunità evangelica in quest’inizio del XXI secolo per quanto concerne la messa in dubbio dei postulati e delle prove dell’evoluzionismo, come pure il prendere seriamente in parola la Genesi nel suo contesto storico e letterale. Molti cristiani pensano che una certa forma di evoluzione, pur credendo in Dio, sia la sola opzione rispettabile per i credenti intelligenti di oggi.
Benché io non sia affatto d’accordo con quei nostri fratelli che la pensano così, ritengo che sia importante analizzare il loro punto di vista con simpatia e comprensione. È chiaro che la presentazione di prove per ammettere lunghi periodi per le diverse ere del cosmo e per evoluzioni cosmiche e macrobiologiche è potuta sembrare impressionante e forse anche irresistibile. Ma il fatto che studi recenti, quali l’articolo del professor Russel e i libri di Ph. Johnson, dimostrino che molte delle prove scientifiche del darwinismo non erano altro che pura propaganda nei giornali del XIX secolo, intelligentemente manipolati da Huxley e altri, non toglie certo il complesso d’inferiorità provato dagli intellettuali cristiani, che si sentivano sinceramente incapaci di rimettere in questione ciò che la stampa pretendeva che fossero le ultime scoperte della scienza sulle origini del mondo.. Allora essi si sono sentiti obbligati a far cancellare l’offesa all’intelligenza, quale sembrava essere una cosmologia apparentemente ingenua, interpretando la Genesi in maniera da non essere in contraddizione con l’evoluzionismo materialista. A loro difesa, essi argomentavano che si potevano anche prendere alla lettera le parti della Bibbia più importanti, quelle che riguardano l’evangelo della salvezza, dal momento che queste non sarebbero state rese incredibili dal punto di vista scientifico, che non le metterebbe nella stessa categoria del racconto della Genesi (1:11).
Io non ho certamente l’intenzione di mettere in dubbio la sincerità o l’alta motivazione di questi autori, siano essi della metà del XIX o della fine del XX secolo. Vorrei veramente poter, umilmente e amabilmente, incoraggiarli a ripensare interamente il loro modo di vedere questa questione di cruciale importanza. È essenziale, in particolare, che l’ala marciante intellettuale del movimento evangelico prenda coscienza dell’importanza del ruolo centrale che deve avere una dottrina della creazione fedele alla Scrittura, nella concezione cristiana del mondo, e che essa si prepari a criticare il racconto razionalista delle origini del mondo con lo stesso vigore con cui da sempre ha difeso il resto dei racconti biblici tradizionali. Io credo che, grazie alla buona provvidenza del Signore, siamo giunti ad un punto in cui una rimessa in questione di tale importanza si può fare in una maniera che sarebbe stata ben più problematica in passato, grazie al lavoro notevole compiuto dai ricercatori scientifici, e non - bisogna farlo notare – grazie agli interventi dei teologi.
Benché la società occidentale si sia largamente aperta al razionalismo dopo che le teorie darwiniane avevano rimpiazzato il racconto della Genesi, ciò non chiude affatto il libro della storia del pensiero del XX secolo. Infatti la scienza, e in particolare la nuova fisica, s’è distaccata dalle ipotesi della meccanica naturalista, che erano tanto importanti per la teoria dell’evoluzione.
Ma prima di parlare dei mutamenti delle teorie scientifiche, dobbiamo ricordare brevemente gli insegnamenti della Genesi sulla creazione.
C) La concezione della creazione secondo la Genesi
Per i credenti, che sono consacrati a Cristo che è la Verità, alla Scrittura che è «perfetta e veridica, che rende savio il semplice» (Sl 19:7), per essi che vogliono con la luce del Signore vedere la luce (Sl 36:9), la prova primaria per la buona interpretazione della creazione è la Bibbia stessa, specialmente gli undici primi capitoli della Genesi e il prologo del Vangelo di Giovanni. La prima questione che si pone è allora: di quale genere di scritti si tratta in questi undici primi capitoli del più antico libro della Bibbia? La domanda è rivolta particolarmente ai commentatori evangelici della Bibbia conseguentemente allo sviluppo, nella cultura occidentale, delle teorie sui grandi periodi dell’universo e sull’evoluzione. Molti hanno cercato di aggirare l’evidente contrasto fra la lettura diretta del testo e le teorie naturaliste sulle origini del mondo. L’hanno fatto enunciando l’ipotesi che gli undici capitoli, particolarmente i primi tre, siano scritti poetici e non eventi di storia cronologica.
Lascio ad un eminente specialista di ebraico e delle lingue semitiche l’incarico di rispondere, con tutto il peso della sua erudizione, alle tesi evangeliche del carattere poetico del capitoli 1-3 della Genesi. Edward J. Young, professore nel Seminario di Westminster, a Filadelfia, attualmente defunto, ha espresso il proprio parere sulla questione in un articolo intitolato «La Genesi, poema o mito?», pubblicato sul Westminster Théological Journal, in questi termini:
Allo scopo di sfuggire al carattere pienamente reale del racconto della Genesi, certi evangelici provano a dire che i primi capitoli della Genesi fanno parte dell’ambito della poesia o del mito. Essi in tal modo vogliono dire che non bisogna prendere questi testi nel senso letterale di un esatto racconto, e che, ammettendo questo, ogni difficoltà è risolta... Adottare questo punto di vista, essi dicono, fa scomparire ogni conflitto con la scienza moderna...
E Young aggiunge:
Ci sono racconti poetici della creazione nella Bibbia: il Salmo 104 e alcuni passi in Giobbe. Ma essi sono di uno stile completamente differente dal primo capitolo della Genesi. La poesia ebraica ha caratteristiche ben definite: esse però non si riscontrano in questo primo capitolo. Così non è una buona soluzione pretendere che questo primo capitolo sia solamente poetico. Colui che dicesse: «Io credo che il libro della Genesi vuole essere un racconto storico, ma io non ci credo a quanto esso racconta» interpreta molto meglio la Bibbia di colui che dice: «Io credo che ciò che dice la Genesi è vero, ma non è che poesia».
Una conferma supplementare del carattere non poetico ma storico del racconto della creazione nella Genesi si ritrova nella maniera con cui il Nuovo Testamento usa questi primi capitoli. Si potrebbe fare e rifare l’esegesi di ciascuno dei libri del Nuovo Testamento ma non si troverebbe la minima traccia di una lettura poetica degli undici primi capitoli della Genesi. Si può non essere d’accordo con la lettura letterale storica di questi capitoli nel Nuovo Testamento, ma non si può onestamente trovare, nelle sue pagine, se non una lettura diretta di questi undici capitoli, presi come eventi letteralmente incontestabili.
Walter T. Brown è un vecchio istruttore dell’Aeronautica americana in pensione. Attualmente è a capo di un centro di studi creazionisti nell’Arizona. Ebbene egli ha fatto l’elenco di 71 referenze ai primi capitoli della Genesi nel Nuovo Testamento, tirandone le seguenti conclusioni:
a) tutti i redattori del Nuovo Testamento fanno riferimento agli undici primi capitoli della Genesi;
b) Gesù si è riferito a ciascuno dei primi sette capitoli della Genesi;
c) tutti i libri del Nuovo Testamento fanno riferimento a questi undici capitoli, eccettuate le Epistole ai Galati, ai Filippesi, ai Tessalonicesi (le due lettere), la seconda lettera a Timoteo, Tito e la II e la III Epistola di Giovanni;
d) ciascuno degli undici primi capitoli è oggetto di un commento nell’uno o nell’altro dei libri del Nuovo Testamento, fatta eccezione per il capitolo 8;
e) tutti i redattori del Nuovo Testamento prendono questi primi capitoli della Genesi come racconti veramente storici.
Se si fa l’analisi grammaticale della Genesi, si constata che la grammatica è quella di un racconto pienamente storico, non quella della poesia. Così, questi primi capitoli della Genesi fanno uso di una forma particolare dell’ebraico chiamata il waw consecutivo (reso in italiano con la ripetizione della congiunzione “e”: ed (waw) egli disse; ed (waw) egli fece, ecc.). Ora gli Ebrei usano normalmente il waw consecutivo per dare un senso di sequenza nella storia. Ognuno può anche constatare, inoltre, che non c’è strofa poetica in tutti questi capitoli: grammaticalmente si tratta di un racconto semplice, un racconto diretto di avvenimenti che si sono realmente prodotti in un ordine ben definito.
Non è certamente nelle mie intenzioni studiare in dettaglio ciò che bisogna ritenere del racconto dei capitoli 1-3 riguardo all’opera compiuta dal Signore nei primi sei giorni della creazione. Tuttavia vorrei fare alcune osservazioni generali su alcuni aspetti importanti dell’insegnamento della Genesi sulla creazione nei primi sei capitoli.
Prima di tutto un breve riassunto del libro della Genesi: può dividersi in due grandi parti. La prima è la creazione; essa copre il primo capitolo e i tre primi versetti del secondo capitolo. La seconda parte va dal capitolo 2, versetto 4, al capitolo 50, versetto 26. Un’analisi più attenta della prima parte ci dà al versetto 1 un sommario della creazione nella sua totalità; poi, dal versetto 2 al v.30, un resoconto dettagliato dei sei giorni della creazione. Abbiamo dunque, innanzitutto, al v.1, la presentazione generale dell’opera della creazione durante i sei giorni presi nel loro insieme e, dopo, dal v.2 al v.30, il racconto dettagliato di quanto Dio ha fatto durante ciascuno dei sei giorni. Poi, dal capitolo 1 v.31, al capitolo 2 v.3, il riassunto: ci dice che «Dio vide tutto ciò che aveva fatto, ed ecco era molto buono» (Ge 1:31).
Da questo punto, procedendo nel resto del libro della Genesi, tutto si svolge come se il progettista si spostasse dall’immenso universo per focalizzarsi su una piccola testa di spillo che si chiama uomo. È la base delle nostre risposte a domande quali: perché siamo qui? perché siamo come siamo oggi? cosa è successo? Ebbene, il secondo capitolo della Genesi volge l’attenzione verso l’umanità, e sarà così per tutto il resto dei libri della Bibbia, fino a che essa termina sulla rivelazione del libro dell’Apocalisse! Così la struttura del libro della Genesi è fatta in modo che essa parte dalla realtà del generale per arrivare alla specificità del dettaglio. Poi essa riassume il significato di questi dettagli e concentra, in seguito l’attenzione su un aspetto molto specifico della realtà: la storia dell’umanità che ci introduce nel patto di grazia e nella buona notizia dell’Evangelo.
In parte, dal momento che non voleva comprendere questa struttura di base della Genesi e la maniera con cui il pensiero ebraico registra i racconti contrastanti della creazione, l’alta critica del XIX secolo ha inventato la finzione di due o tre racconti contraddittori della creazione, fondandosi su una «teoria degli strati» nella composizione del Pentateuco, che sarebbe l’addizione, postulata da Graf e Wellhausen, di strati (J,E,D e P) nella sua composizione.
Umberto Cassuto, il grande docente ebreo dell’Università di Gerusalemme, ha risposto, negli anni ‘50, a questa forma erronea della critica superiore. Nel suo Commentario del libro della Genesi, egli mostra come il v. 4 del cap. 2 della Genesi non sia un riassunto del racconto della creazione del capitolo precedente, ma piuttosto un indicatore di una sezione a logica differente del libro della Genesi (riferendosi alla sua seconda parte). Genesi 2:4 dà, secondo la sua spiegazione, un abbozzo generale, breve: esso dà conto della formazione di una delle creature del mondo materiale, mentre il libro, nella sua seconda parte, si dedica e si allarga molto in dettaglio sulla storia dell’essere che è al centro del mondo morale. Questa ripetizione era coerente col principio stilistico di presentare, agli inizi, l’insieme per poi passare in rassegna il dettaglio, un sistema che era comunemente seguito non solo per la Bibbia ma anche per i monumenti letterari degli altri paesi dell’antico Oriente. Il lettore può pensare che si tratti di un altro racconto, ed è proprio questo che la critica superiore tedesca del XIX secolo ha preso come ipotesi, cosicché, secondo essa, il secondo capitolo della Genesi (Ge 2) non sarebbe altro che un secondo racconto della creazione, in contraddizione col primo (Ge 1), mentre esso è solo una ripresa in dettaglio del primo capitolo.
Oltre alla comprensione dello schema di base del libro della Genesi, bisogna anche considerare il significato della parola ebraica usata da Mosè e che noi traduciamo con creare nel primo capitolo della Genesi. Si tratta del verbo barah nel tempo presente attivo Qal. Il professor E.J. Young ha fatto notare che «usato al tempo Qal, il verbo barah designa unicamente l’attività divina: il soggetto del verbo è sempre Dio, mai l’uomo». Questo verbo vuol dire che Dio ha creato tutte le cose a partire dal nulla (creatio ex nihilo), vale a dire senza l’utilizzazione della materia preesistente. È ciò che si chiama la «creazione assoluta», per opposizione alla «creazione relativa», che utilizza un materiale preesistente. Non c’era che Dio solo a poter realizzare questo miracolo!
Infine, il concetto di creazione assoluta riposa sulla realtà del Dio della Scrittura, assoluto, infinito e personale. In ultima analisi, dobbiamo supporre o un Dio eterno o una materia eterna: sono le due sole possibilità che si offrono per rendere conto della fonte primaria di ogni realtà. Lasciatemi dire che l’esistenza di una materia eterna non è in alcun senso un fatto scientifico. È piuttosto un articolo di fede o una supposizione di carattere religioso: è necessario che ci ricordiamo del carattere religioso di questa ipotesi quando discutiamo coi partigiani dell’evoluzione.
Si può aggiungere una terza osservazione a quelle precedenti sulla struttura del libro della Genesi e sul concetto di «creazione assoluta». Nel primo capitolo ci è data un’indicazione importante con l’introduzione e la continuità della vita vegetale nel terzo giorno della creazione (Ge 1: 9-13). Il testo ci dice che Dio ha messo nel suolo fertile non i semi ma le piante nel pieno della maturità, alberi coi frutti contenenti i loro semi riproduttori. E queste piante create adulte erano nel loro aspetto più vecchie della loro effettiva età. Noi possiamo così pensare che il nostro progenitore Adamo, creato adulto nel sesto giorno, sembrava un diciottenne o un ventenne mentre aveva un solo giorno di vita. Lo stesso si può dire delle piante e degli alberi, che impiegano molti anni per raggiungere la loro maturità, e che ora sembravano più vecchie della loro reale età. Ciò ci fa capire che Dio, nella sua attività creatrice, può creare una pianta, un albero, un essere umano nel loro stato adulto in una frazione di secondo. Non dobbiamo allora cercare di misurare l’età della realtà fisica solamente sulla base del tempo necessario agli strumenti di oggi per funzionare. Si tratta di un problema importante per i sostenitori della «tesi dell’uniformizzazione», i quali credono che «il presente è la chiave del passato», dal momento che rifiutano di tener conto di ciò che può fare l’attività creatrice di Dio. In tal modo essi forniscono un calcolo esagerato dell’età dell’universo.
Il testo della Genesi ci insegna che Dio ha dato alla vita vegetale i mezzi per trasmettere il proprio codice genetico di generazione in generazione attraverso i semi che essa contiene. Il v.11 del capitolo 1 della Genesi lo dice chiaramente:
Faccia la terra germogliare la verdura, le erbe che facciano seme e gli alberi da frutto che portino sulla terra un frutto contenente il proprio seme, ciascuno secondo la propria specie.
C’era dunque, impiantato in ogni organismo creato da Dio, un seme, programmato per permettere la replica continua di questo tipo d’organismo (è detto: la sua specie). Oggi si direbbe che il seme è la molecola DNA, questo viticcio contenente il codice genetico che specifica le caratteristiche di riproduzione della medesima specie. Ciò che la Genesi ci dice, la scienza moderna lo conferma rafforzando con le sue scoperte la nozione di stabilità delle specie. Si è dunque molto lontani dalla teoria dell’evoluzione di una specie evolventesi verso un’altra specie. In altri termini, «una specie riproduce se stessa», le cose si riproducono secondo la loro specie. Certo, c’è molto potenziale di variazione in ciascuna specie di base - così ci sono molte razze di cani, per esempio - ma non c’è alcuna prova d’un cambiamento di una specie in un’altra (per esempio, di un cambiamento di un cane in un gatto, o di un pesce in un uccello).
Notiamo qui che la teoria dell’evoluzione si trova in una grande crisi, per il fatto che il meccanismo centrale da essa ostentato per spiegare lo sviluppo delle specie inferiori in specie superiori cozza col principio di stabilità delle basi delle specie, quello descritto nel primo capitolo della Genesi, principio la cui credibilità è rinsaldata dalle ricerche attuali della genetica (in effetti, esse rimontano agli esperimenti effettuati da Mendel sui piselli nella metà del XIX secolo). D’altronde, dal tempo di Mendel e fino ad oggi, la ricerca genetica non è stata capace di dimostrare la veracità della tesi dell’evoluzione di una specie in un’altra. Ed è per questo che le teorie dell’evoluzione si trovano in cattive acque.
Vorrei citare a questo punto un nuovo supplemento ai manuali scolari di biologia, attualmente molto diffuso negli Stati Uniti: Dei panda e degli uomini: la questione centrale delle origini biologiche. Questo manuale, redatto da scienziati rispettabili, critica i meccanismi proposti dalle teorie dell’evoluzione fondandosi sulle più recenti ricerche sperimentali. I loro autori assicurano che:
il solo mezzo per introdurre veramente un nuovo materiale genetico nel potenziale genetico si può avere per una mutazione, cioè per un cambiamento della sua struttura DNA. Ora le mutazioni dei geni non si producono se non quando i geni individuali sono stati danneggiati da un’esposizione al calore, agli agenti chimici o a delle radiazioni. Le mutazioni dei cromosomi, da parte loro, non hanno luogo che quando delle sezioni del DNA sono duplicate, invertite, perdute o spostate altrove nella struttura DNA. In quanto meccanismo centrale dell’evoluzione, le mutazioni sono state oggetto di intense ricerche nel corso dell’ultimo mezzo secolo. Sono stati fatti numerosissimi studi sulla mosca drosofila dei frutti, poiché la sua vita molto breve permette agli scienziati di osservarne parecchie generazioni. Avendo bombardato le mosche con radiazioni per accrescerne il tasso di mutazione, ci si è accorti che le mutazioni non creano nuove strutture. Esse non fanno che modificare le strutture esistenti, ma non hanno trasformato la drosofila in una specie di nuovo insetto. Gli esperimenti non hanno fatto altro che produrre varianti della specie della mosca drosofila.
La controprova che le mutazioni non risultano da un’evoluzione è stata fornita in maniera ancora più decisiva dallo zoologo francese Grasse, che ha studiato generazioni di batteri, che si riproducono molto più rapidamente della mosca drosofila: una generazione dura all’incirca mezz’ora, dunque i batteri si riproducono 400.000 volte più rapidamente che le nostre generazioni umane. I ricercatori possono così seguire le modificazioni che le mutazioni producono in uno spazio di tempo relativamente brevissimo, ma che equivale a tre milioni e mezzo (3.500.000) di anni per la nostra razza umana. Ma Grasse ha trovato che i suoi batteri non sono affatto cambiati attraverso queste generazioni.[4] Davanti a tali risultati sperimentali, si può ragionevolmente sostenere che né le piante né l’umanità sono evolute durante il periodo equivalente a quello nel corso del quale i batteri hanno rivelato una discendenza stabile.
Qualcuno potrebbe arguire che, pur non essendoci una prova convincente dell’evoluzione in materia di mutazione da una specie ad un’altra, la sola esistenza di tanti fossili dimostra da sé che c’è stata in passato un’evoluzione (o cambio graduale di specie). Peccato...! Le ricerche attuali hanno mostrato come i fossili siano una delle prove più forti contro l’evoluzione e a favore di una certa forma di creazione secondo un «piano intelligente». Lo specialista dei fossili Stephen J. Gould, in un articolo intitolato «Il cammino erroneo dell’evoluzione» pubblicato nel numero di maggio 1977 della rivista Natural History, ha constatato che «l’estrema rarità di forme di transizione nelle sequenze fossili resta un mistero nella paleontologia». E aggiunge: «Nuove specie sono apparse quasi sempre in queste sequenze, ma senza alcun legame cogli antenati trovati nelle rocce più antiche della stessa regione».
Ciò significa che manca sempre «l’anello mancante», mentre si trovano sempre più fossili, e che i salti tra le specie o famiglie sono sempre molto ampi. Commento di David B. Kitts, professore alla facoltà di geologia e geofisica dell’Università dell’Oklahoma:
A dispetto delle belle promesse secondo le quali la paleontologia avrebbe fornito un mezzo per vedere l’evoluzione, essa non ha potuto produrre che brutte difficoltà ai partigiani dell’evoluzione, la più nota delle quali è la presenza di buchi nella sequenza fossile. La teoria dell’evoluzione vorrebbe degli intermediari fra le specie e la paleontologia non gliene fornisce.[5]
Sotto questo angolo, la paleontologia testimonia fortemente a favore della tesi della Genesi sulla stabilità delle specie.
Giunto alla conclusione di questa prima parte, vorrei dire che per noi cristiani non è affatto il momento di vergognarci della dottrina fondamentale insegnata dal libro della Genesi. Al contrario, è tempo di considerare più attentamente il testo sacro, ponendo le questioni essenziali di fronte alle pretese delle teorie dell’evoluzione, ancora popolari nella nostra società. Più faremo questo e più facilmente potremo elevare la nostra voce insieme con quelle degli angeli, per lodare il Signore che è nello stesso tempo il nostro Creatore e il nostro Redentore.
Vi invito a farlo col salmista col canto del Salmo 148, nella parafrasi di Teodoro di Beza contenuto nel Salterio di Ginevra:
Voi, distese, abissi,
Lodate la mano del Creatore.
Egli parla e tutto gli obbedisce,
Ognuno si piega ai suoi decreti.
Mostri marini negli abissi,
Tempeste infurianti sulle cime
Siete tutti, nevi e venti,
Sottomessi alle leggi di Dio potente.
Voi, tutti i cedri delle alture,
Voi, frutteti e foreste,
Voi tutti, monti e colline
E voi, fiumi e ruscelli,
Voi, greggi al pascolo
E tutti gli animali selvatici,
Sulla terra, in cielo e nelle acque,
Lodate il nome dell’Altissimo.
Lui solo è grande, lui solo è Dio,
La sua gloria è oltre i cieli:
Nel suo amore si è legato
Al popolo che ha rialzato.
Per lodarlo, o voi suoi fedeli,
Il vostro ardore si rinnovelli.
Accostatevi al vostro Re,
Andate a lui. Alleluia!
Teodoro di Beza
II. Il capitolo 6 della Genesi: i giorni della creazione e il loro significato dal punto di vista biblico
L’opera del primo giorno della creazione ci pone davanti alla differenza fondamentale fra il cristianesimo biblico e il naturalismo materialista: la creazione assoluta a partire dal nulla da parte di un Dio infinito e personale da un lato, e l’eternità della materia o dell’energia, dall’altro. A parte questa differenza, il secondo fossato, profondo e invalicabile, fra l’immagine della realtà fornitaci dalla Bibbia e quella presentata dalla filosofia umanista, è la questione del tempo, e più specificamente quella dell’età dell’universo. C’è bisogno, in effetti, di vasti periodi per poter giustificare un’ipotesi razionalista e impersonale, quale è quella dell’evoluzione, che deve rimpiazzare la creazione divina. Per il fatto dello scivolamento intellettuale, avvenuto agli inizi del XIX secolo, verso la teoria dei grandi periodi nella storia della terra - prima in geologia, poi in biologia e, in seguito, molto presto nella storia e in tutti gli altri campi -, coloro che volevano prendere sul serio la Scrittura si son trovati di fronte a questioni difficili nel momento in cui hanno voluto dare un’interpretazione dei giorni della settimana della creazione.
Così dagli inizi o dalla metà del XIX secolo si è avuta una grande varietà di interpretazioni della nozione di giorno, anche fra i commentatori evangelici della Bibbia.Prima di esaminare queste diverse tesi vediamo, innanzitutto, ciò che dice il libro della Genesi e, dopo, la Bibbia in generale.
A) La nozione di giorno nella Bibbia
Generalmente, la Bibbia adopera il termine giorno (yom, in ebraico) per indicare un periodo di tempo della durata di ventiquattro ore del giorno solare, oppure per quella porzione delle ventiquattro ore rischiarata dal sole. Quando è preceduto da un numero (come, per esempio, il numero ordinale: il primo giorno, il secondo giorno) esso ha costantemente, attraverso tutta la Scrittura, il significato di un giorno solare normale.
Alcune volte la parola giorno è usata nella Scrittura per indicare un periodo di tempo non precisamente definito (come in Gb 7:6: «I miei giorni sono più veloci di una spola da tessitore e si consumano...» o nel Sl 90:9: «... tutti i nostri giorni svaniscono...»). Ma, in questi casi, la parola giorno significa anche una successione determinata di giorni normali, e non un’estensione esegetica dell’immaginazione, di vasti periodi. La parola giorno (yom) può anche designare, in alcuni casi, una parte dell’anno, come per esempio il tempo della mietitura (cfr. Ge 30:14), ma anche qui si tratta di nient’altro che di alcune settimane di normali giorni solari, e non di epoche di migliaia o milioni di anni.
L’espressione profetica «il giorno del Signore» si riferisce naturalmente a una categoria di giorno speciale, che vuole indicare, qualunque sia il senso profetico, un giorno ordinario divenuto straordinario per l’intervento definitivo di Dio. Ciò non può, in alcuna maniera, né indicare vasti periodi di tempo né contraddire il senso generale, nella Bibbia, del termine giorno inteso come un normale giorno solare.
Vi sono tuttavia alcuni testi della Scrittura ove è ben chiaro che la parola giorno è adoperata in un altro senso che il periodo di ventiquattro ore. Il caso più patente si trova nella seconda Epistola di Pietro, capitolo 3, versetto 8: «Per il Signore un giorno è come mille anni...» Ma qui il contesto indica chiaramente che non si è nel senso letterale storico e normale. Si può legittimamente affermare che questo uso eccezionale non può dar luogo ad una lettura riguardante giorni normali, come se si dicesse: a causa di 2 Pt 3:8 (un giorno = mille anni), i sette giorni della creazione sono automaticamente durati settemila anni, salvo che il contesto letterale e grammaticale del passo considerato non richiedesse una tale trasformazione del senso del termine giorno. Ora, in tutta evidenza, il testo dei capitoli 1 e 2 di Genesi non indica affatto una tale trasformazione, ma richiama il senso di una sequenza di normali giorni solari.
Lo scienziato Henry M. Morris sembra essere nel giusto quando ribadisce che il termine giorno dei capitoli 1 e 2 di Genesi significa un normale giorno solare:
Inoltre «Dio chiamò la luce giorno e chiamò le tenebre notte» (Ge 1:5). Si direbbe che Dio abbia scelto accuratamente le parole in previsione di future confusioni!. La prima volta che egli adopera la parola giorno (yom, in ebraico), la definisce «la luce» per distinguerla dalle «tenebre» che chiama notte.
Avendo separato il giorno dalla notte, Dio aveva compiuto l’opera del primo giorno. «Così fu sera, poi fu mattina: il primo giorno» (Ge 1:5). La medesima formula si trova alla fine di ciascuno dei sei giorni della creazione; è evidente che la durata di ognuno di questi giorni, compreso il primo, è la stessa... È chiaro che col primo giorno e col seguente si stabilisce una successione ciclica di giorni e di notti, di periodi di luce e di tenebre.
Questa disposizione ciclica di luce e di tenebre voleva dire chiaramente che la terra girava sul suo asse e che c’era una fonte di luce su un lato della terra, che corrispondeva al sole, anche se il sole non era stato ancora creato (Ge 1:16). È talmente chiaro che la lunghezza di tali giorni non poteva non essere che quella di un giorno solare normale.
Nel primo capitolo della Genesi, la fine dell’opera di ogni giorno è indicata con la formula: «Così fu sera, poi fu mattina: il primo (o il secondo, ecc.) giorno».
Così ogni giorno della creazione è precisamente delimitato ed è «unico» nella serie degli altri giorni: la congiunzione di questi due criteri non è mai presente negli scritti dell’Antico Testamento senza che vi sia l’intento di un senso letterale. Il redattore della Genesi ha cercato con tutti i mezzi possibili di prevenire che i suoi lettori venissero trascinati in un senso non letterale della parola giorno in questo testo.
Una conferma supplementare del senso proprio di «giorno solare» per il termine giorno nella Genesi ci è data dal quarto comandamento, al versetto 11 del capitolo 20 dell’Esodo: «Poiché in sei giorni l’Eterno fece i cieli e la terra, il mare e tutto ciò che è in essi e il settimo giorno si riposò; perciò l’Eterno ha benedetto il giorno di sabato e l’ha santificato». Il punto cruciale qui è dato dal fatto che l’opera creatrice di Dio, seguita dal suo riposo, deve servire da quadro per la vita intera dell’umanità, come suo riflesso sulla terra. È evidente che l’umanità è così importante per l’Altissimo che ha voluto disegnare la sua attività creatrice in modo da dare una struttura alla vita dell’uomo. Vi deve essere stato un motivo maggiore perché Dio creasse in sei giorni piuttosto che in una frazione di secondo o in cento miliardi di anni.
Una tale conclusione è lungi dall’essere assurda se crediamo seriamente all’incarnazione del Figlio eterno di Dio in una vera natura umana per riscattare l’umanità. Giacché, se il Dio infinito ha voluto, nella persona del Figlio, discendere nella nostra carne, l’organizzazione della settimana della creazione in sequenze di tempo nell’interesse della razza umana (la futura fidanzata del Figlio di Dio) non è incompatibile col suo patto d’amore e di grande bontà. È proprio vero che l’incarnazione dell’Autore della creazione in mezzo a sequenze temporali finite (senza che lui cessasse di essere infinito) appare come un miracolo più stupefacente della creazione stessa. Nello spirito di un Dio che è venuto ad abitare sulla polvere stessa della terra non può esserci aberrazione nel collocare la sua grandezza meravigliosa e infinita in uno svolgimento specifico del tempo. In fondo, sia il tempo che la polvere sono creature finite di Dio, e suoi servitori, non suoi maestri.
Ci sono tre altri principali argomenti, ricavati dal testo scritturale, i quali potrebbero far ritenere che i giorni non siano normali giorni solari. Li menziono brevemente, ma il terzo merita un’analisi più dettagliata. Il primo argomento è fornito dalla fondata osservazione che, essendo stato il sole collocato nel cielo solamente nel quarto giorno, i primi tre giorni non possono essere chiamati in senso stretto «normali giorni solari». Pertanto si potrebbe pensare che i tre primi giorni abbiano potuto coprire delle ampie epoche. Se il contesto del primo capitolo della Genesi non ci fornisse altri elementi da considerare, questa osservazione potrebbe presentare delle serie difficoltà. Ma, come abbiamo visto, «dal momento che ogni giorno della creazione è ben delimitato ed è unico nella serie degli altri giorni, l’unione di questi due criteri non è mai presente negli scritti dell’Antico Testamento senza che vi sia l’intenzione di un senso letterale»[6]. La presenza di questa realtà costituisce la risposta del contesto immediato della Genesi alla questione. Il testo del quarto comandamento in Esodo 20:11 fornisce una prova supplementare per dare ai sette giorni della creazione il loro proprio senso di giorni normali con la medesima durata.
Il secondo argomento per allungare i giorni di ventiquattro ore della settimana della creazione a lunghi periodi di tempo si fonda sull’assenza, nel testo della Genesi, della frase conclusiva «così fu sera, poi fu mattina: il settimo giorno». Hugh Ross, per esempio, mostra come l’assenza di questa formula «suggerisca fortemente che questa giornata non s’è (o non si era) conclusa». E ne trae questa conclusione:
Da questi passi (Salmo 95 e Epistola agli Ebrei, capitolo 14), deduciamo che il settimo giorno dei capitoli 1 e 2 della Genesi rappresenta un minimo di parecchie migliaia di anni e un massimo che è aperto, ma finito. Mi sembra ragionevole concludere, dato il parallelismo del racconto della Genesi, che i sei primi giorni potrebbero essere stati dei lunghi periodi di tempo.
Il minimo che si possa dire è che ciò equivale a poggiare un’affermazione di un grande peso teologico su una tavola esegetica piuttosto stretta e sottile! Non si è più vicini al senso evidente del contesto di Genesi 2 (e di Esodo 20) dicendo che, essendo il sabato diverso per qualità, sebbene non per quantità - almeno da tutto ciò che si può apprendere dal testo stesso -, sarebbe stata aggiunta una formula conclusiva leggermente diversa per indicare una differenza qualitativa (sei giorni per il lavoro, un giorno per il riposo)?
La formula usata per indicare la fine di questo primo sabato («Pertanto il settimo giorno Dio terminò l’opera che aveva fatto, e nel settimo giorno si riposò da tutta l’opera che aveva fatto», Ge 2:2) dà, a quanto sembra, una fine ben definita alla pari dell’altra «Così fu sera, poi fu mattina: il primo giorno». Tanto più necessaria quando ricordiamo il fine che Dio s’era proposto prendendo sei giorni per operare e un giorno per riposarsi: l’aveva fatto per fornire un quadro di vita ordinata, necessaria per l’esistenza di quelli che dovevano portare la sua immagine sulla terra. Se l’assenza di questa formula finale doveva voler dire che la divina organizzazione del riposo del sabato sarebbe dovuta continuare per migliaia di anni, come gli uomini avrebbero potuto allora cominciare ad osservare il quarto comandamento dell’Esodo (Es 20:9) di lavorare per sei giorni la settimana?
È così che gli argomenti per una settimana della creazione, che dura parecchie migliaia o milioni di anni, appaiono distorti e artificiosi quando si osserva attentamente il testo immediato della Genesi e il più ampio contesto biblico. Gli esegeti sono ora impegnati in una sorta di moderna casistica, allo scopo di voler dimostrare ad ogni costo che il giorno della Genesi è tutto fuorché un normale giorno solare. Nel constatare come questi esegeti si sono aggrappati a ricostruzioni evangeliche della settimana della creazione, similari in tutti i punti, non si può che apprezzare l’onestà di un liberale, il professore scozzese M. Dods, il quale ha scritto che «se, per esempio, il termine giorno in questi capitoli (della Genesi) non significa una durata di ventiquattro ore, allora bisogna disperare di poter mai interpretare la Scrittura».
La fine del XX secolo ha visto svilupparsi una delle varianti più popolari fra le teorie della creazione (almeno nella cerchia dei riformati evangelici): la teoria del quadro, proposta a quanto sembra per la prima volta dal professor Noordzij, dell’Università di Utrecht, nel 1924. Egli ha cercato di distinguersi per una metodologia nuova del senso normale di giorno della settimana della creazione, introducendo una dicotomia fra l’ordine cronologico letterale e il quadro letterario del testo della Scrittura. Avendo notato un parallelo fra i tre primi giorni e i tre giorni seguenti della settimana della creazione, egli ne trae delle conseguenze inusuali. Ecco la trascrizione che ne fa E.J. Young:
Che i sei giorni non abbiano nulla a che vedere con il corso naturale delle cose, pensa Noordzij, si può vedere dal modo con cui il redattore raggruppa il suo materiale. Ci troviamo di fronte a due terzetti di un marcato parallelismo, il cui obiettivo è quello di mettere in evidenza la gloria preminente dell’uomo. Questo raggiunge veramente il proprio destino nel sabato, giacché il sabato è il punto culminante dell’opera creatrice di Dio, e verso di lui essa tende... Ciò che ha un significato, non è il concetto di giorno in se stesso, ma il concetto di sei più uno.
Nel momento in cui l’autore (della Genesi) parla di sere e mattini anteriori ai corpi celesti del quarto giorno, prosegue Noordzij, è chiaro che egli usa i termini giorno e notte come un quadro (kader). Questa frazione del tempo è un’immagine, data non per mostrare il racconto della creazione nella storia del suo corso naturale, ma piuttosto, come avviene già altrove nella Sacra Scrittura, per evidenziare la maestà della creazione nella chiarezza luminosa del piano di Dio per la nostra salvezza.Perché allora, ci si potrebbe domandare, perché parla di sei giorni? La risposta, secondo Noordzij, è che essi non sono menzionati che per prepararci al settimo giorno.
Questa teoria si è molto diffusa nel corso degli ultimi trenta anni attraverso gli scritti del professor Meredith Kline, del Westminster West Seminary, un protestante riformato esperto dell’Antico Testamento, autore di importanti opere di ricerca sul patto di salvezza. Nel suo Commentario sulla Genesi, egli scrive:
Il carattere letterario del prologo (egli si riferisce all’inizio della Genesi fino al versetto 3 del capitolo 2) limita tuttavia la possibilità di un suo uso per modelli scientifici, poiché il suo linguaggio è quello della semplice osservazione e il suo stile è penetrato da una poesia di qualità, riflessa nella costruzione strofica. L’esegesi indica che lo schema della settimana della creazione ha esso stesso una forma poetica e che i pannelli della storia della creazione sono collocati nel quadro della settimana di sei giorni di lavoro non cronologicamente, ma per temi.
Questa teoria del quadro, con la sua scissione fra un senso cronologico letterale e un significato letterario, è stata portata molto più lontano dal professor Henri Blocher, della Facoltà di teologia evangelica di Vaux-sur-Seine, nel suo libro Rivelazione delle origini (Révélation des Origines). H. Blocher si oppone all’interpretazione letterale, che suppone una piena storicità cronologica dell’opera dei sei giorni della creazione con la scappatoia di un’interpretazione letteraria. Nel suo spirito, «la forma della settimana attribuita alla creazione è un arrangiamento artistico, un sobrio antropomorfismo che non deve essere preso in senso letterale». Così, secondo lui, si evita il conflitto fra le ipotesi moderne di un universo estremamente antico, lasciando lo spazio per lo sviluppo di una certa evoluzione.
Una delle componenti della teoria del quadro, quella più frequentemente messa in evidenza per evitare una lettura cronologica dei sette giorni della Genesi, fu suggerita da M. Kline, secondo il quale Genesi 2:5 («Nel giorno che Dio l’Eterno fece la terra e i cieli, non vi era ancora sulla terra alcun arbusto della campagna e nessuna erba della campagna era ancora spuntata, perché l’Eterno Dio non aveva fatto piovere sulla terra...») fa pensare all’intervento di processi provvidenziali nel corso della creazione, i quali non avrebbero potuto svolgersi nei sei giorni di ventiquattro ore. Così, egli conclude, la Genesi vuole insegnare non una sequenza cronologica della creazione, ma «un quadro figurato, nel quale i dati della creazione storica saranno stati ordinati sulla base di considerazioni tutt’altro che strettamente storiche».
Come allora dobbiamo valutare questa teoria del quadro e la dicotomia da essa sottintesa? Non vorremmo essere alla leggera in disaccordo con così eminenti teologi evangelici, se non vi fosse in gioco una questione d’importanza capitale per tutte le interpretazioni della Bibbia. Vi è sotto molto di più che la questione, certamente complicata, di sapere quale sia l’età della terra. Io dico che anche se si volesse optare per un universo antico, la maniera scelta dai fautori della teoria del quadro per renderla accettabile è un prezzo troppo alto da pagare quando si crede alla veracità del testo biblico nella sua interezza. Infatti, per far funzionare questa teoria, essi hanno introdotto una dicotomia potenzialmente disastrosa, (una rottura) fra la forma letteraria e la viabilità storica e cronologica nell’interpretazione dei testi biblici. Sarebbe ingenuo supporre che un dualismo ermeneutico di tale portata si fermi ai primi due capitoli della Genesi, non venendo più applicato in seguito in alcun altro passo della Bibbia che verrebbe a trovarsi in contrasto con le teorie naturaliste.
Non v’è persona, per quanto m’è dato sapere, che sia penetrata nel cuore di questo dibattito in maniera più incisiva di Jean-Marc Berthoud, autore protestante riformato di Losanna, in Svizzera. In uno scambio epistolare col prof. Henri Blocher (in seguito pubblicato), J.M. Berthoud palesa l’ipotesi di base che fa funzionare la teoria del quadro. Egli mette in questione la critica formulata da Blocher dell’interpretazione letterale (o letteralista) della Bibbia a favore di un approccio letterario.
Rispondendo a questo dualismo tra la forma letteraria e la realtà storica, Berthoud scrive: «L’opposizione letteralista-letteraria che si vede dappertutto nel vostro libro è uno schema inadeguato alle realtà bibliche... Voi partite dal presupposto non formulato che ciò che chiamate raffinatezza letteraria e lettura letterale si escludano quasi obbligatoriamente a vicenda». Berthoud dice giustamente che questa separazione assiomatica tra forma letteraria e senso letterale è una presa di posizione filosofica che non viene dalla Bibbia.
Quale difficoltà ci sarebbe stata (per l’Autore dell’universo) a far coincidere la più complessa, la più raffinata forma letteraria con la maniera con cui egli avrebbe creato tutte le cose in sei giorni? La disposizione artistica non si oppone all’analoga disposizione dei fatti, a meno che, evidentemente, l’Autore del racconto non sia il Creatore dei fatti descritti... Così è la vostra costante opposizione dell’interpretazione letteraria all’interpretazione letterale che io metto in questione.Giacché il contrasto non è affatto fra la prosa contro la poesia, fra l’interpretazione letteraria contro l’interpretazione letterale, ma fra l’interpretazione vera contro l’interpretazione falsa. La vera opposizione è stile letterario vero contro stile letterario falso, stile letterale vero contro stile letterale falso.
James B. Jordan ha ugualmente espresso i propri dubbi su questa dicotomia, inutile ai suoi occhi:
La teoria del quadro... pretende che i sei giorni della creazione non siano una durata nel tempo ma solamente una convenzione letteraria per rappresentare una sestupla creazione. Il problema fondamentale di questo modo di vedere è che esso oppone senza necessità un’interpretazione teologica all’interpretazione letterale... la dimensione teologica della creazione in sei giorni presente precisamente nel fatto che essa copre una sequenza di tempo... Dio non aveva alcun motivo di fare il mondo in sei giorni, se non la volontà di creare un esempio da seguire da parte del suo riflesso, l’uomo. Là dove la Bibbia usa un modello di tre giorni, o di sei giorni, o di sette giorni, è teologicamente sempre nel senso di un trascorrere del tempo da un inizio a una fine. La teoria del quadro «platonifica» (trasforma alla maniera di Platone) la sequenza del tempo in un semplice insieme di idee. Volendola rendere teologica, la teoria del quadro fallisce completamente il punto teologico.
Jean-Marc Berthoud crede che la filosofia sottostante alla distinzione fatta fra letterario e letterale (o, in Jordan, fra teologico e letterale) sia una specie di nominalismo risuscitato, quale era praticato nel Medio Evo dal teologo Guglielmo di Occam. Commentando questa forma di esegesi, di cui l’interpretazione di Henri Blocher gli sembra un esempio, egli dice:
Si tratta in effetti di una esegesi nominalista... Per Occam, la forma, il nome, non avevano una relazione reale, vera, con la cosa nominata, significata. Allo stesso modo qui (nella teoria del quadro), la forma non ha una vera relazione con la realtà temporale della creazione.
In altri passi della Scrittura, una forma letteraria elegante (come, per esempio, la struttura in strofe o alla maniera di un inno di Filippesi 2:5-11) non rimpiazza il senso storico letterale delle grandi tappe dell’umiliazione, e poi dell’esaltazione di Cristo. Se in questo testo non si ha una dicotomia tra la forma letteraria e il contenuto storico e letterale, perché ci dovrebbe essere nei capitoli 1 e 2 della Genesi? Non sarebbe qualcosa di esterno alla Scrittura che verrebbe a introdurre la dicotomia, piuttosto che le considerazioni di ermeneutica che vi sono annesse?
Sia nel XIX secolo che attualmente, si trova un accostamento esegetico più onesto negli scritti dei liberali. Nel secolo scorso, il professor Marcus Dods, del New College di Edimburgo, per esempio notava:
Tutti i tentativi che si fanno per forzare un accordo fra le diverse indicazioni dei capitoli 1 e 2 della Genesi sono futili e ingannevoli... (e) devono essere condannati perché fanno violenza alla Scrittura, inducono uno stile d’interpretazione in cui il testo è forzato a dire ciò che il suo interprete desidera, impedendoci di riconoscere la vera natura di questi scritti sacri.
Da buon liberale, Dods ha anche scritto che se qualcuno è alla ricerca di un’informazione esatta sull’età della terra, o sulle sue relazioni col sole, la luna e le stelle, o riguardo all’ordine nel quale vi sono apparsi le piante e gli animali, bisogna che ricorra a dei libri recenti.
Ai nostri giorni, il professor James Barr, grande teologo liberale, già professore a Oxford, scriveva in una lettera del 23 aprile 1984 a David C.C. Watson:
Per quanto io sappia, non c’è professore di ebraico o di Antico Testamento di qualche università di rinomanza mondiale che non creda che l’autore o gli autori degli undici primi capitoli della Genesi non abbiano cercato di trasmettere ai loro lettori l’idea che:
la creazione si è prodotta in un intervallo di sei giorni, gli stessi giorni di ventiquattro ore come li abbiamo noi oggi;
le cifre delle genealogie contenute nella Genesi sono date per semplice addizione cronologica dall’inizio del mondo fino a momenti posteriori nella storia biblica; e
il diluvio di Noè è ritenuto universale e distruttore di ogni vita umana e animale sulla terra, fatta eccezione per quelli entrati nell’arca.
O allora, andando al negativo, gli argomenti apologetici che sostengono che i giorni della creazione sarebbero delle lunghe ere, numerosi anni non cronologici, che il diluvio sarebbe stato una semplice piena nella Mesopotamia, questi argomenti non vengono presi sul serio da nessun professore, per quanto io sappia.
Come i professori Dods e Barr, i cristiani che accettano l’invito a credere alla Scrittura così com’è scritta, leggono gli undici primi capitoli della Genesi nel loro senso immediato, ma, contrariamente ad essi (che sono liberali), credono che il testo è un racconto storico veritiero, che riporta la situazione dello spazio-tempo alle origini. E piuttosto che lasciare questi appelli alla verità ai teorici naturalisti delle origini del mondo, essi credono che le prove sperimentali scientifiche sono chiaramente a favore della necessaria presenza di un autore esterno intelligente al momento della creazione.
Ma allora quanto è antico il mondo?
La vera ragione per cui si è cercato di trasformare il giorno letterale in un lasso di tempo lungo e indefinito è data dal fatto che si aveva la prova scientifica di un mondo vecchio di un incommensurabile numero di anni. Ma, in effetti, l’età della terra non è assolutamente un dato provato dagli ambienti scientifici. Una maggiore revisione delle prove su questa questione è stata fatta nel corso degli ultimi trenta anni, sebbene la comunità scientifica sia attualmente divisa sulla maniera d’interpretare i dati della geologia, dell’astronomia e di tutto ciò che vi è connesso. Una larghissima maggioranza di scienziati sostengono ancora la tesi di un universo molto antico, ma v’è un numero rapidamente crescente di altri scienziati i quali presentano valide prove per un universo relativamente più giovane (e che entrerebbe nel quadro cronologico generale della Genesi).
Non sono solamente i cristiani fondamentalisti, ci sono anche numerosi esperti, non sospetti di simpatie per il punto di vista biblico, i quali criticano gli argomenti generalmente usati per «provare» che il mondo è vecchio di milioni di anni (piuttosto che di migliaia). Un libro molto utile su questo argomento è quello di Paul E. Ackerman, pubblicato nel 1986: Dopo tutto il nostro mondo è giovane: le prove stimolanti che la creazione è recente.[7]
Vediamo alcuni fatti scientifici che sembra vadano contro le misure di anzianità dei dati reali della geologia e quelli che militano a favore di una terra giovane:
i) Contro il sistema di misura di anzianità
È stato detto che molti cronometri offrono la prova di un sistema geologico molto antico. Ma l’affidabilità di questi orologi o cronometri è stata messa in dubbio da numerosi problemi.
In breve, l’affidabilità di un cronometro si misura in base a tre criteri:
l’orologio deve funzionare a un ritmo costante (niente deve poter accelerare o rallentare la sua marcia);
l’orologio dev’essere stato messo a punto ad iniziare dal periodo di tempo da misurare;
l’orologio non deve essere turbato dal movimento delle lancette durante tutto il periodo di tempo da misurare.
A mo’ d’esempio, prendiamo la molecola U238-Pb206, che raggiunge la metà della sua vita in 4,5 miliardi di anni. Per sapere in maniera certa che una roccia contenente una certa somma di uranio e di piombo (o di uranio o di piombo) sia antica di un così gran numero di anni, bisogna ammettere le cose seguenti, che sono tutte scientificamente molto contestabili:
La roccia non conteneva alcun prodotto di decomposizione del piombo all’ora zero.
Nessun uranio originale né alcun prodotto di decomposizione del piombo sono stati mai aggiunti o se ne sono mai usciti durante questi anni.
Ma gli atomi originali (madri) e i prodotti di decomposizione (figlie) si spostano attraverso le formazioni rocciose a causa del riscaldamento e della deformazione delle rocce. Il piombo (Pb) si volatilizza ed esce. Il potassio (K) e l’argon vengono trascinati fuori dall’acqua. Tutto questo modifica la posizione delle lancette dell’orologio, rendendo non valida la misura che esse danno.
Si trova un esempio di quanto detto sopra nelle rocce vulcaniche delle Hawai, che sono sorte sotto il mare centosettanta anni fa. La misurazione di queste rocce col metodo del potassio e dell’argon ha data loro una datazione di quasi tre miliardi di anni! Ci possiamo dunque porre a buon diritto delle domande sull’attendibilità delle prove dell’età del mondo.
Il tasso di diminuzione della radioattività non è variata. Ma i neutroni o la radiazione cosmica potrebbero aver modificato i tassi degli isotopi.
Se ne trova un esempio nel carbonio C14, la cui metà di durata della vita è di 5730 anni. L’ipotesi di base del metodo è che il carbonio C14 è prodotto nell’alta atmosfera dalla radiazione cosmica, che è rimasta costante per 50.000 anni. Questo carbonio viene assorbito dalle piante e dagli animali. Quando essi muoiono, il tenore di carbonio 14 diminuisce, e si può quindi misurare approssimativamente da quando tempo sono morti col metodo del carbonio 14.
Ma non si può essere sicuri della costanza del tasso di radiazione cosmica nell’alta atmosfera. Le radiazioni cosmiche sarebbero state a un tasso molto più elevato al momento della creazione, e da allora, ci sono state modificazioni di questo tasso a causa dell’influenza del sole sui campi magnetici terrestri. Prima del diluvio, sembra che vi fosse uno spesso strato di vapore acqueo, che potrebbe aver indotto tassi di radiazioni cosmiche molto diversi da quelli di dopo il diluvio. Così il metodo del carbonio 14 ha probabilmente più validità dopo il diluvio che prima, cosicché esso non ci può portare più lontano dei testi scritti.
E un rallentamento della velocità della luce?
C’è adesso un argomento di grande portata per rifiutare tutti i cronometri fisici che attribuiscono un’età enorme al cosmo. Il giurì non ha ancora fornito le sue conclusioni, ma sono penetrate abbastanza informazioni per farci mettere in dubbio l’anzianità del sistema solare, in particolare l’ipotesi di un rallentamento della velocità della luce.
Nel suo libro La luce delle stelle e il tempo (Starlight and Time), Russel Humphreys ha dato un punto di vista sperimentale e argomentato secondo il quale la gravità colpisce le diverse specie di orologi a un punto tale che la vera misura del numero di anni-luce dovrebbe essere in migliaia di anni e non in centinaia di milioni. Ma non mi occuperò più oltre di questa faccenda complicata.
ii) Argomenti a favore di una terra giovane
Consideriamo ora rapidamente alcuni fatti scientifici che sembrano deporre per una terra e un sistema solare giovani. Per misurare l’età approssimativa del mondo ci sono altri mezzi oltre gli orologi atomici. Essi danno tutti un’età relativamente più giovane alle realtà fisiche. Eccone alcuni:
- la popolazione umana;
- la formazione dei delta dei fiumi (come quelli del Nilo, del Rodano o del Mississippi);
- il tenore di gas delle rocce porose;
- la salinità degli oceani;
- le comete;
- la polvere sulla luna;
ecc.
Non abbiamo il tempo per passare in rassegna gli argomenti che provano una creazione recente, ma possiamo notare che un universo antico renderebbe impossibili i fenomeni sopra citati.
Conclusione
Per concludere, vogliamo dire che ci sono motivi per pensare che , da due secoli a questa parte, i cristiani sono stati troppo lesti ad accettare le ipotesi dei naturalisti, dei materialisti, degli umanisti sull’età dell’universo. Le loro idee rendono la lettura del racconto della Genesi molto difficile, se non impossibile. Ma ecco che oggi le tesi dell’estrema anzianità del cosmo sono seriamente rimesse in questione. Ci sono dunque meno motivi che in passato per non prendere nel suo giusto valore l’insegnamento del libro della Genesi sulla creazione.
Quando il Salmo 19 ci dice che la Parola di Dio conduce la nostra anima verso la verità e la beltà, ciò include anche gli insegnamenti della Genesi sulla creazione. Eccone la versione che ce ne dà il Salterio di Ginevra:
Dio crea un cuore nuovo
Dà una più bella speranza
Con la sua legge perfetta.
Tutti i suoi comandamenti
Ci tracciano più chiaramente
Il più dritto cammino.
I suoi giudizi sono veri
L’umile ne riceve la pace,
La sua parola è limpida.
L’oro della sua verità,
Il miele della sua bontà
Questo desidera la mia anima.
Clément Marot
III. Le affermazioni teologiche decisive sulla creazione
Per concludere la nostra riflessione sulla dottrina biblica della creazione, passeremo in rassegna, prima di tutto, due serie di prove sperimentali a pro della creazione e contro l’evoluzione; poi enunceremo quattro affermazioni, quattro tesi teologiche decisive, che saranno altrettanti punti d’ancoraggio ai quali la nostra Chiesa si dovrà sempre tenere, o meglio aggrapparsi.
A) Le prove sperimentali a favore della creazione e contro l’evoluzione
1. Le leggi della termodinamica
Le due leggi della termodinamica sembrano aver bisogno di qualche cosa che somiglia alla creazione divina, rendendo impossibile l’evoluzione materialista.
La ricerca condotta per oltre un secolo ha sempre più mostrato che le due leggi della termodinamica testimoniano, almeno in maniera indiretta, la necessità della creazione assoluta (cioè a partire dal nulla). La prima legge, quella della conservazione dell’energia, dimostra questa realtà: dal momento che l’energia, che contiene tutta la materia, non è attualmente né creata né distrutta, ci dev’essere stato un momento, al di fuori del tempo fisico, in cui sono state in funzione delle energie creatrici, cosa che non si può più ottenere nel nostro mondo naturale.
In altre parole, ciò significa che l’energia (la materia) non può essere prodotta naturalmente dal nulla. Bisogna dunque che ci sia stato qualcosa, o meglio qualcuno), al di fuori del processo naturale spazio-tempo, cosicché ci possiamo spiegare come sia potuto venire all’esistenza un mondo in cui non si può creare la realtà materiale. Ed è chiaramente ciò che ci fa capire la lingua ebraica in Genesi 1:1 usando nient’altro che una particolare forma verbale per contrassegnare la creazione assoluta: la forma bara(h) al tempo Qal. Questa forma del verbo non è usata, nella Scrittura, che per esprimere l’attività divina della creazione a partire dal nulla.
La seconda legge della termodinamica (la legge dell’entropia) conferma ancora di più il verdetto della prima legge: l’energia-materia non può giustificarsi nel quadro dei processi fisici attuali. È quanto viene dimostrato da uno dei teoremi di Gödel: un sistema non può essere nello stesso tempo chiuso e completamente giustificato. Infatti, per essere completamente giustificato, deve aprirsi ad un grado più elevato della realtà. La legge d’entropia dice che ad ogni scambio di energia nel cosmo, una certa parte di questa energia tende a passare allo stato non reversibile di energia calorifica, che allora non è più disponibile per un lavoro produttivo. La legge d’entropia dice ancora che in capo ad un determinato tempo, per lo scambio avvenuto di energia, si sarà creata tanta energia calorifica che l’universo ne morrà consumandosi per il calore (ciò che i cristiani collegheranno alle predizioni di 2 Pietro 3:7-10 riguardo all’ultimo giorno, quando gli elementi infuocati si dissolveranno).
Sir James Jeans ha mostrato bene in che cosa la legge d’entropia dà conto della necessità di un inizio:
Il punto di vista scientifico ortodosso è che l’entropia dell’universo deve sempre accrescersi per giungere finalmente ad un massimo. Ora essa non ha raggiunto questo massimo, e noi neanche ce ne accorgeremmo se l’avesse raggiunto. Essendo l’entropia dell’universo ancora in rapida crescenza, è ben necessario che essa abbia avuto un inizio; deve esserci stato ciò che noi descriveremmo come una creazione in un momento che non è lontano nell’infinito.
2. L’irriducibile complessità della cellula parla a favore della creazione e contro l’evoluzione
Uno dei libri più venduti negli USA negli anni 1996 e 1997 è l’opera di Michael Behe, professore di biochimica all’Università Lehigh di Pennsylvania. È intitolato: La scatola nera di Darwin e la sfida biochimica all’evoluzione.[8] M. Behe argomenta che, specialmente in seguito alla decifrazione del codice del DNA, ciò che si conosce della complessità quasi incredibile della cellula umana esclude completamente ogni possibilità che essa risulti dall’evoluzione, ma fa piuttosto pensare al compimento di uno schema ideato da una superiore intelligenza. Egli mostra che:
Un complesso sistema irriducibile non può essersi prodotto direttamente, vale a dire per un miglioramento continuo della funzione iniziale, che continua a lavorare secondo il medesimo meccanismo, un sistema complesso irriducibile non può essere prodotto da leggere modificazioni successive di un sistema precursore, poiché ogni sistema precursore di un sistema complesso a cui mancherebbe una parte (anche un piccolo pezzo), per definizione non potrebbe funzionare. Un sistema biologico complesso irriducibile... è dunque una possente sfida alla teoria dell’evoluzione di Darwin.
Egli poi nota:
Ai livelli più bassi della biologia - quelli della vita chimica della cellula - abbiamo scoperto un mondo complesso che modifica radicalmente le basi sulle quali si possono contestare i dibattiti intorno a Darwin.
E Behe aggiunge:
In sintesi, allorquando i biochimici hanno cominciato ad esaminare strutture apparentemente semplici, quali i cigli e i flagelli, hanno scoperto una complessità sconcertante, fatta di dozzine o anche di centinaia di pezzi minuziosamente fatti su misura... Man mano che il numero di questi pezzi aumenta, la difficoltà di mettere insieme un sistema per gradi diventa vertiginosa e... Darwin sembra sempre più abbandonato.[9]
La conclusione scientifica è chiara: le strutture incredibilmente complesse dei sistemi viventi, non solamente escludono un’evoluzione graduale, con un mutamento per gradi, e la selezione naturale, ma necessitano anche di una creazione diretta, vale a dire di essere state fatte completamente adulte, nello stadio della loro piena maturità, interamente funzionali. M. Behe mostra perché:
La conclusione che c’è un disegno intelligente dietro i sistemi interattivi poggia sull’osservazione della complessità irriducibile altamente adattata, l’ordine di componenti separati molto adattati per arrivare ad un funzionamento che va più lontano degli stessi componenti (p. 223).
pertanto, se qualche cosa non fosse stata messa insieme rapidamente, o anche repentinamente... (p. 187).
... Più grande è la specificità dei componenti interattivi necessaria per produrre questo funzionamento, e più grande sarà la nostra fiducia nella conclusione del grande Disegno (p. 194).
E Behe sente la voce della biologia molecolare che è un richiamo alla creazione:
Il risultato dell’accumulo degli sforzi d’investigazione della cellula -per cercare la vita al livello della molecola - è un chiaro e forte appello, un grido acuto per un disegno! Questo risultato è talmente senza ambiguità, talmente pieno di senso che dev’essere messo fra i più grandi eventi (del secolo) nella storia della scienza.[10]
3. Bastano le prove per convincere gl’increduli?
Abbiamo visto quanto c’insegnano le prove scientifiche sperimentali sulla creazione ieri e oggi. ma, in quanto cristiani, sappiamo che ci vuole altro che le prove per cambiare l’opinione della gente.
Non ci sono solamente teologi riformati famosi, come Cornelius van Til, ma anche ricercatori di mente chiara nel campo delle prove legali, come il professor Philip Johnson, di Berkeley, i quali ci hanno mostrato che c'è un senso inevitabile secondo il quale «la fede determina i fatti». È il suo punto di partenza, o il suo quadro presupposto, o ancora, come dice Thomas S. Kuhn nella sua Struttura delle rivoluzioni scientifiche, il paradigma che tende a renderci ciechi davanti ai fatti, anche se essi risultano dall'osservazione sperimentale, allorquando questi risultati non s'inseriscono bene nel nostro sistema di pensiero.
I cristiani sono stati a lungo accusati di dare per base della fede articoli accecanti e oscurantisti; ma attualmente le ricerche scientifiche e giuridiche si collegano per mostrare che l'evoluzionismo è una religione, una fede, un dogma protetto. Nel suo libro Il dogma dell'evoluzione (Evolution as Dogma), Ph. Johnson dice giustamente: «Ciò che i professori di scienza propongono di insegnarci come evoluzione, e ciò a cui danno questo nome, non è fondato su prove sperimentali incontestabili, ma su un postulato filosofico molto discutibile».
In un altro volume più recente, Ph. Johnson intavola la discussione su una sorprendente conferenza data nel 1981 nel Museo di storia naturale americano. Detta conferenza paragonava il creazionismo (non la scienza della creazione) con l'evoluzione, e li caratterizzava ambedue come concezioni scientifiche prive di senso, che si basano innanzitutto sulla fede senza poterne dare spiegazione del come.
Secondo C. Patterson, «la teoria di Darwin della selezione naturale è sotto il fuoco delle critiche e gli ambienti scientifici non sono affatto ancora sicuri della sua validità. Gli evoluzionisti parlano sempre più come creazionisti per quanto riguarda il mettere un fatto in evidenza, ma sono incapaci di fornire una (soddisfacente) spiegazione dei mezzi per produrlo».
La coscienza della realtà del potere accecante dei presupposti è un buon motivo per pregare, in maniera sempre più fervente, per coloro i quali non credono alla creazione operata da Dio, per domandargli di liberare la loro mente incatenata e aprire i loro occhi.
E, nello stesso tempo, preghiamo per gli evoluzionisti, ricordandoci di questi versi di un poema Sulla Verità, composto da Laurent Drelincourt, pastore a Parigi nel XVII secolo:
Un solo strale dei tuoi occhi trafigge l'accecamento:
L'errore, sbigottito alla tua vista, sparisce:
La tua mano, spezzando le nostre catene, ci porta al Firmamento;
E, contro il tuo potere, ogni sforzo è vano.
B) Quattro tesi teologiche decisive, che non sono negoziabili
Riassumiamo tutto quanto è stato detto in quattro decisive affermazioni teologiche sulla creazione, sperando che queste tesi siano sostenute da tutte e ciascuna delle nostre chiese la cui dottrina è sana, quali che siano la differenze minori e le incertezze che esse possano avere fra di loro.
1. Sulla creazione assoluta
Non è veramente necessario ridire le prove sia bibliche che scientifiche della creazione dal nulla da parte di un Dio infinito e personale. Continuare a voler attenersi a una forma di relativismo o di creazione secondaria, equivale ad elevare qualcosa d'altro (che possa essere lo spazio, il tempo. l'elettromagnetismo e la forza di gravità, l'energia o la struttura nucleare) alla posizione di rivale infinito del solo vero Dio. Abbiamo già detto abbastanza su questo soggetto.
2. La validità nello spazio-tempo della Parola scritta di Dio
La validità, nello spazio-tempo, della Parola scritta di Dio è qualcosa che la Scrittura proclama da se stessa. Allontanarsi dalla Scrittura su questo punto per accomodarla alla filosofia naturalista equivale a rendere il peggiore servizio possibile a coloro che sono presi nelle maglie del dogma dell'evoluzione materialista. Bisogna avere abbastanza amore per le anime materialiste, nel seno della nostra cultura in disintegrazione, sopportando di vederli irritati contro di noi quando annunciamo loro la verità, che essi devono udire nell'amore. Quando non prendono sul serio la Scrittura, parlando del mondo reale dello spazio-tempo, ciò significa introdurre un dualismo teologico disastroso fra il dominio dell'alto e il dominio del basso, svuotando le Scritture della loro realtà nei due domini. Noi portiamo testimonianza della verità della Scrittura, non perché non amiamo i naturalisti che si oppongono alla Parola, ma perché ci preoccupiamo di loro e vogliamo che si realizzi «l'ingresso nella Parola che dà luce». La sola cosa veramente caritatevole che possiamo fare per essi è di «tormentarli» per mostrare il loro intellettuale fallimento e dirigerli verso il ricco tesoro della Grazia racchiusa nella Parola di Dio. Il fatto che la loro risposta alla nostra testimonianza possa essere meno che riconoscente non è una ragione per nascondere loro la luce, a cui dovrebbero guardare (benché essa in un primo momento potrebbe ferire i loro occhi, come ha potuto ferire i nostri). Samuel Rutherford, il riformatore scozzese, diceva bene: «I doveri sono nostri, gli eventi sono di Dio» (Duties are ours; Events are Lord's).
3. L'origine del peccato e la morte nell'universo per la colpa dell'uomo
Un terzo fondamento teologico assolutamente decisivo, sul quale ogni chiesa sana si deve saldamente ancorare, è la spiegazione che dà la Bibbia sull'entrata del male e della morte nell'universo a causa del peccato dell'uomo. È un punto dal significato immensamente più importante che tutte le questioni sulla data precisa della terra e altre questioni, che tuttavia non sono senza conseguenze.Infatti tutto il piano divino della salvezza, quale è contenuto nella teologia dell'alleanza dell'Antico e del Nuovo Testamento, attraverso i princìpi federalisti o rappresentativi, tutto questo piano poggia sulla validità di questo punto maggiore della Genesi. E la profondità della bontà di Dio,«che è luce, e in cui non è possibile tenebra alcuna», è legata in maniera inestricabile alla risposta che la Genesi dà alla domanda: quale è dunque l'origine del male?
Vediamo questa problematica, quella della bontà di Dio e del male; poi rifletteremo sugli insegnamenti della Genesi e dell'Epistola ai Romani relativamente alla posizione privilegiata di Adamo nell'alleanza sul piano della redenzione. Per quanto concerne queste due verità teologiche estremamente significative, vi raccomando la piccola opera di N. Cameron: L'evoluzione e l'autorità della Bibbia[11]. Penso che i capitoli 4 e 5 di questo libro costituiscano il più eccellente punto esegetico e teologico che io abbia mai visto su queste due questioni. Li voglio qui riassumere.
Sei volte, nel capitolo 1 della Genesi, gli specifici elementi della divina creazione sono qualificati buoni (nei versetti 4, 10, 12, 18, 21, 25). La settima volta, è tutta la creazione che riceve enfaticamente la qualifica di «molto buona».
Come scrivono Keil e Delitzsch, nel loro grande Commentario dell'Antico Testamento: «Con l'aggettivo buono applicato a tutto ciò che Dio aveva fatto, e con la ripetizione del termine buono a cui è aggiunto l'avverbio enfatico molto, viene assolutamente negata l'esistenza del male nel seno della divina creazione».
N. Cameron prosegue spiegando come la Genesi ricollega all'uomo la venuta del male nel mondo: «Ecco la risposta della Bibbia alla problematica del male: è apertamente per biasimare l'uomo, e la teodicea abbozzata nei tre primi capitoli della Genesi assume una specie di forma giuridica per renderlo assolutamente evidente , garantendo l'integrità del Giudice». Egli fa risaltare come il capitolo 1 metta in scena la perfezione morale della creazione. Nel capitolo 2, si pone l'accento sui dettagli che dimostrano il carattere amoroso delle cure di Dio per l'uomo. «Con la buona provvidenza di Dio e la proibizione di un solo albero, cui è legata una clausola di punizione».
Dopo la loro violazione del comando divino e il tentativo di nascondersi: «Essi vengono inquisiti da Dio e portati a confessare la loro colpa». Il Giudice pronuncia allora la sentenza (Ge 3:4-9). La morte, che era stata minacciata, è comminata con tutto il resto che essa comporta, giacché vi sono inclusi, in un sommario, i mali della vita: la maledizione del serpente (v.14), l'inimicizia fra il serpente e la donna (v.15), i dolori del parto (16a), i conflitti del matrimonio (16b), la maledizione del suolo (17b), la maledizione sul lavoro umano (17b, 18, 19a) e, punto culminante, il ritorno alla polvere (19). Non é facile evitare la conclusione che i mali di questo catalogo sono tutti destinati a prodursi.
N. Cameron cita E.L. Mascall, che scriveva:
Fino a questi ultimi anni, era quasi universalmente saputo che tutti i mali, sia morali che fisici, che colpiscono questa terra sono, in una maniera o nell'altra, la conseguenza della prima azione con la quale una creatura corporale, dotata di ragione, s'è deliberatamente innalzata contro quella che sapeva bene essere la volontà di Dio.
Il capitolo 4 della Genesi parla poi di assassinio e di vendetta, indi i capitoli 6 e seguenti mostrano il giudizio devastatore costituito dal diluvio universale. «Il legame dei capitoli 1, 2 e 3 coi quattro seguenti è di grande significato. Il Creatore si trova liberato dal biasimo: il mondo da lui creato era sette volte buono. La svolta si è avuta per la caduta dell'uomo con tutto il suo seguito di miseria per lui e di sconvolgimento sulla terra che gli era stata affidata».
Cameron conclude evidenziando bene il centro della problematica, costituito dalla bontà di Dio e dalla sua intenzione di redenzione.
La minaccia proferita contro l'uomo nel giardino dell'Eden era ben chiara: una minaccia di morte, la morte come conseguenza del peccato. Si tratta di un legame molto semplice, che sottolinea ciò che apprenderemo più tardi nella Scrittura a proposito della morte e del peccato. È un fondamentale presupposto per la comprensione evangelica dell'espiazione, cosicché se viene contestato il legame di causalità peccato-morte, si riducono a nulla la causa e l'efficacia dell'espiazione mediante il sangue...
La Genesi ci ha insegnato che Dio ha creato un mondo perfetto, ma che la morte dell'uomo e gli altri mali sono penetrati in questo mondo per la colpa del peccato originale dell'uomo.
La teologia dell'apostolo Paolo si fonda sulla validità del legame fra il peccato originale di Adamo e la rovina del mondo. Per questo egli stabilisce il parallelo fra la persona e la straordinaria opera di Gesù Cristo, «l'ultimo Adamo», il quale annulla con la sua obbedienza a Dio, suo Padre, le conseguenze del peccato originale di Adamo e guarisce non solo l'umanità, ma con essa il mondo fisico nella sua interezza. Questa analogia fra il Cristo e Adamo è insegnata nella I Epistola ai Corinzi (15:21-22) e nell'Epistola ai Romani (5: 12-21). È nel capitolo 8, versetti da 19 a 23, dell'Epistola ai Romani che si fa riferimento alla liberazione del mondo fisico, che attualmente soffre per il giudizio, conseguente agli effetti deterioranti del peccato dell'uomo.
Tutto ciò vuol dire che Adamo «rappresentava», in ciò che faceva, non solamente tutta la sua discendenza, ma anche tutto l'ordine della creazione di cui era il coronamento e il sacerdote. È quanto Keil e Delitzsch commentano così:
La creazione è stata trascinata nella caduta dell'uomo, cosa che l'ha costretta a condividerne le conseguenze, poiché la totalità della creazione irrazionale era stata fatta per l'uomo e resa soggetta a lui, suo capo; per conseguenza, la terra era stata maledetta a causa dell'uomo.
Il grande teologo scozzese Thomas Boston, nella sua opera Il quadruplice stato della natura umana (The Fourfold State of Human Nature), risponde all'obiezione molte volte sollevata nel corso dei secoli: questo principio della rappresentanza non è una «cattiva novella»? E risponde dicendo che, in definitiva, il medesimo principio di primato in forza di un'alleanza o di un trattato è la migliore buona novella, e la sola speranza per la razza umana. Infatti, con questo mezzo, Gesù Cristo, l'ultimo Adamo, mettendosi al posto nostro, ci rappresenta e fa per noi ciò che non potremmo mai fare: offre a Dio Padre il suo perfetto amore filiale e la sua morale obbedienza di tutti gli istanti, poi, sempre al posto nostro, storna su di sé tutte le conseguenze del nostro peccato, il suo obbrobrio e la sua giusta punizione. La buona novella è che noi siamo in Cristo (vedere il capitolo 6 della lettera ai Romani), cosa che fa più che controbilanciare la cattiva novella di essere nati in Adamo.
Non riconoscere il carattere centrale della rappresentanza nel primo Adamo equivale a svuotare della sua realtà l'ultimo Adamo. Se il primo rappresentante dell'alleanza non avesse recato, con la sua disobbedienza, la morte e la condanna al mondo fisico reale, è improbabile che l'ultimo Adamo avrebbe potuto recare, con la sua obbedienza, perdono, vita e guarigione, o quanto meno non al mondo reale.
Non intendo sviluppare lo scenario evoluzionista del male, della morte e delle età fossili anteriori alla creazione di Adamo e alla sua volontaria caduta, né come questo scenario sia in assoluto contrasto con la spiegazione che ci danno sia l'Antico che il Nuovo Testamento riguardo all'origine del male e, con la Buona Novella, l'Evangelo, riguardo alla realtà del primato dell'alleanza. I tentativi dell'evoluzionismo teista sono intrepidi, ma assolutamente senza speranza, quando pretendono conservare Gesù Cristo, nella sua obbedienza passiva e attiva, come nostro rappresentante, accettando nello stesso tempo le teorie contrarie degli evoluzionisti, con le loro lunghe epoche di viziose lotte e di mortali sofferenze fra i preumani.
A me sembra che per l'interpretazione della Genesi e per tutta la sistematica teologica della Chiesa cristiana, non c'è domanda che abbia più senso di questa: come è venuto il male? e come si vince? Abbandonare l'insegnamento centrale delle Scritture e, nello stesso tempo, la testimonianza ortodossa quasi universale di tutte le Chiese storiche da duemila anni a questa parte, per accomodarla a una teoria delle origini che è falsa, dogmatica, non sperimentale, ecco l'assurdo. Benché dettata certamente dalle migliori intenzioni, una tale capitolazione dalla verità centrale della Bibbia, a vantaggio di concezioni materialiste estremamente problematiche, mira al cuore della fede e della missione della Chiesa. E, in ultima analisi, questa maniera di procedere è contraria al superiore bene dei materialisti stessi, di cui i cristiani hanno sempre il dovere di prendersi cura (Ro 1:14).
In conclusione, l'evoluzionismo (e l'evoluzionismo teista che ne fa parte) si appella a una spiegazione del male completamente diversa e svuota del principio di rappresentanza la sua applicazione al mondo reale. È certamente un prezzo da pagare troppo alto per un tentativo di compromesso con una teoria che non è sostenuta dalle ricerche della sperimentazione scientifica, e non è in accordo con la Parola di Dio.
4. Le teorie umane devono conformarsi alla Scrittura
Tutte queste teorie: quella dello spazio mancante (gap theory), quella dell'inquadramento naturalista, quella dell'evoluzionismo teista, tutte devono servire come potenti esempi pedagogici di ciò che la teologia cristiana non dovrebbe mai permettersi. Non è mai cosa saggia il voler adattare l'autorità della Scrittura, Parola di Dio pienamente e scrupolosamente interpretata, a dei paradigmi (per riprendere l'espressione di T.S. Kuhn) derivati da concezioni naturaliste del mondo. L'approccio giusto si ha nel convincersi che, per comprendere veramente bene l'ordine della creazione, la Sacra Scrittura dà un orientamento generale che non cambia. Le Scritture, certo, non rispondono a tutte le questioni, così come non pregiudicano nessuno per i risultati della sperimentazione e della ricerca. Ma esse danno a coloro che sono stati creati a immagine di Dio dei punti di partenza e dei limiti, che sono assolutamente necessari per un'interpretazione fruttuosa della creazione e della vita: le sue origini e la sua finalità.
Alcuni anni fa, Robert Jastrow ha ipotizzato, con umorismo, che la paura peggiore per gli scienziati si avrà quando alla fine essi arriveranno in cima alla montagna e vi troveranno... una schiera di teologi, seduti là da secoli! O, come disse una volta Albright, ebraista e grande critico dell'Antico Testamento: «Se ci aggrappiamo alle Scritture, la scienza finalmente ci raggiungerà!» Noi non potremo mai fare meglio per giungere a questo che continuando a credere, continuando a proclamare con molta precisione ciò che dicono le Scritture riguardo alle origini del mondo, alla sua fine e a tutto ciò che nel frattempo è accaduto, accade e accadrà. Giacché il privilegio di noi, gente del Libro, è quello di usarne in modo da contribuire ad un esito finale che sia non il dolore di una pena che non avrebbe senso, ma il frutto di una grandissima gioia.
Sono persuaso che ci troviamo alla vigilia di ciò che Thomas S. Kuhn, nella sua opera La struttura delle rivoluzioni scientifiche, chiama un «cambiamento di paradigma». È quanto accade quando un modello teorico del mondo antico (il paradigma) non può più rendere conto della realtà sperimentale che si erge davanti ad esso. Può darsi che noi, fra cinquanta o sessanta anni, vedremo la teoria evoluzionista rimpiazzata da una dottrina rinnovellata della creazione ad opera di Dio Padre,mediante il Figlio e nello Spirito Santo. E la mia preghiera è che voi, conduttori della Chiesa di Dio, facciate della divina Parola rivelata il punto di partenza della dottrina del fondamento di ogni concezione vitale del mondo: la creazione di tutte le cose dal nulla mediante la Parola eterna. Se voi fate degli undici primi capitoli della Genesi la vostra convinzione di base, il vostro presupposto, allora ci saranno tutti i motivi per credere che la scienza finalmente vi raggiungerà, e a quel punto voi avrete contribuito a dare forma ad una concezione completa e guaritrice del mondo e della vita per la cultura del maggior numero di persone.
Io vi invito a fare nostra questa preghiera di lode al Dio creatore dell’universo nella composizione poetica di Vittoria L. Lella:
O mio Signore, se guardo il ciel, le stelle,
Se penso ai mondi, opra di tua man,
Se odo il tuon, la voce sua possente
Che il tuo poter mi porta a meditar,
L’anima mia, Signore, canta a Te:
Grande Tu sei! Grande Tu sei!
L’anima mia, Signore, canta a Te:
Grande Tu sei! Grande Tu sei!
E quando un dì, Signore, Tu verrai
E su nel ciel mi porterai con Te,
Di gioia il cuor traboccherà; adorando
Ripeterà che grande sei, mio Re!
L’anima mia, Signore, canta a Te:
Grande Tu sei! Grande Tu sei!
L’anima mia, Signore, canta a Te:
Grande Tu sei! Grande Tu sei!
[1] D. Kelly è professore di teologia sistematica nel Reformed Theological Seminary di Dillon (Carolina del Nord - U.S.A.). Questo articolo riporta le tre conferenze da lui tenute alla Pastorale di Dijon nell’aprile 2000.
[2] (Le citazioni bibliche sono tratte dalla Nuova Diodati, edizione 1991)
[3] A Huémoz-sur-Ollon, in Svizzera
[4] Traité de Zoologie, tomo VIII, Masson, 1976
[5] «Paleontology and Evolutionary Theory», Evolution, vol.2, 1974
[6] H.M. Morris
[7] P.D. Ackerman, It’s a Young World After All: Exciting Evidences for Recent Creation - Grand rapids: Baker Book House
[8] Darwin’s Black Box: The Biochemical Challenge to Evolution - The Free Press, 1996
[9] Op. cit., p. 73
[10] Op. cit. p. 232-233
[11] Evolution and the Authority of the Bible - Exeter: Paternoster, 1983